Fino a un anno fa non possedevo mezzi di locomozione che non fossero le mie gambe e la mia bici.
Quindi, in conclusione, non possedevo mezzi di locomozione che non fossero le mie gambe.
Vivere sulle Torricelle non ha scalfito la mia convinzione: ricordo ancora il primo giorno di scuola l’anno scorso; calcolo male i tempi, è settembre e ci sono 10.000 gradi, arrivo a scuola sudato come un iguanodonte.
*la collega mega imbarazzata che mi guarda la camicia fradicia e mi dice “Tranquillo, resto io a fare sorveglianza in classe”, io ancora più imbarazzato.
Pronto a gestire le nuove distanze (dosare lo sforzo di pedalata per arrivare fresco), mi convoca il preside: “Gavioli ci siamo sbagliati: ha una classe a Caldiero. Contestualmente ci impegneremo a darle l’orario più di merda possibile perché i precari devono soffrire ed essere stressati all’inverosimile pur non corrispondendo loro lo stipendio d’estate”.
Ok, non l’ha detta così davvero eh. Però.
Su Caldiero sono caduto. Ho comprato una moto elettrica, ben conscio che purtroppo dalle comodità non si torna mai indietro. Ciao ciao bici quotidiana.
Avere un mezzo e un’assicurazione mi ha fatto sentire improvvisamente adulto più di tutte le altre cose.
Fu così che si ruppe il rapporto viscerale -quando non il rapporto di stalking- che intrattenevo con il mio meccanico di fiducia, Claudino from Golosangeles.
Provenienza sudamericana, mood da Pedro Benitez scalatore delle Ande prima di perdere la corsa della vita, gentilezza e professionalità a mille.
L’avevo incrociato anni prima a vendere telai Focus: l’abbronzatura che non mentiva e il sangue di chi macina l’aria rarefatta delle alture. “Correvo in una squadretta, adesso faccio il meccanico…”
Ero stato molto felice quando aveva aperto il suo negozio alle Golo. Claudino fa parte di quei commercianti che si sentono in colpa a chiederti più di 5 euro per l’ottimo lavoro che fanno. Mi presentava il conto e la lista delle riparazioni come una lettera di scuse.
La mia frase preferita con lui, mentre gli mettevo in mano il ferro era “Fai quello che c’è da fare”. Il mio peso e l’asfalto veronese costituiscono infatti un notevole stress meccanico per le bici.
Claudino mi chiedeva sempre dove andassi a pedalare e non solo per cortesia. Lui invece aveva l’aria di uno che passa le domeniche in laboratorio. Quest’estate gli ho chiesto io se andasse in vacanza e mi ha detto che no, “troppo lavoro qui, devo fare l’inventario. Al massimo porto la bimba in piscina”.
Venerdì ho ritirato l’ultima volta una bicicletta da lui. Ovviamente riparata alla perfezione. “Chiudo. Lavoro troppo, non vedo la mia famiglia, non guadagno abbastanza. Vado a lavorare in un negozio di bici elettriche”.
Qualcosa di coraggioso e in fondo eroico è finito alle Golosine. Claudino chiude, lunga vita a Claudino!
A metà notte mi sveglio, obnubilato da tutte le tasks che devo completare.
Sono stanco eppure faccio fatica a riprendere sonno.
Forse scrivo questo per ricordare a tuttə che non sono solo performance e vita perfetta su Instagram.
Ok, sono mega fortunato sotto svariati punti di vista, ma comunque soffro lo stress perché sono un procrastinatore seriale.
Sapevate che l’origine di procrastinare è il latino pro cras cioè “a favore del domani”?
Pazzesca l’etimologia.
Insomma, ci tengo a dire che, nonostante tutti gli sforzi nel pavoneggiarmi, la mia vita ogni tanto è una merda senza via di fuga.
Tipo che nella mia cronologia di Google potresti trovare “Cosa succede se non mi presento più al lavoro per l’eternità e ignoro tutte le incombenze imposte da questa società?”. Naturalmente la ricerca è stata effettuata alle 3 a.m.
Generalmente a questo punto penso ai miei che mi riempiono di responsabilità e mi fanno percepire come il male™ fare le cose a cazzo di cane. E se avessero avuto torto?
Conseguentemente, i ragazzini a cui do le note a scuola perché non fanno i compiti… No dico, e se avessero ragione loro?
“Oh I’m sorry man, I was taking life seriously” diceva Bill Hicks esortando il governo a rendere la cannabis obbligatoria.
Wanna know something? Mi sa che cerco di dormire che domani è lunedì.
Ieri sera ho sentito la solita tiritera “NON HO NIENTE CONTRO I GHEI PERÒ NON CAPISCO PERCHÉ DEBBANO SBATTERMI IN FACCIA LE LORO ESAGERAZIONI DURANTE IL PRIDE”.
Allora, a parte che dovrebbe essere obbligatorio conseguire un patentino per emanciparsi dalle lagne dei propri genitori che guardano la televisione… ma a parte questo, vi immaginate un maschio bianco americano che nel 1960 dica “Non ho niente contro gli Afroamericani ma questo Martin Luther King perché deve bloccare il traffico con le sue marce e le sue ESAGERAZIONI?”.
Poi la stessa persona di cui sopra ha aggiunto che questi cambiamenti nella società devono avvenire “naturalmente”. Cosa significa? A me sembra che se Rosa Parks non si fosse seduta su quel benedetto posto d’autobus ora saremmo ancora in attesa che la società occidentale si evolva “naturalmente”.
Amico mio, ti ricordo che siamo a Verona, la capitale della famiglia tradizionale, la città dell’esecrando Family Day durante il quale c’era gente che regalava dei simpatici FETI DI GOMMA ai passanti per protestare contro il diritto delle donne di gestire il loro utero. Pensa se qualcuno volesse arrogarsi il diritto di gestire le tue palle. Quante volte hai disperso il tuo seme in doccia? Sai quanti figli avresti potuto offrire alla Patria®?
(Fortunatamente ora Verona è diventata la capitale del GIENDER grazie al nuovo sindaco notoriamente pazzerello)
Quindi ricapitolando: ti infastidisce che ne so, un uomo in tacchi a spillo che balla la Carrà (sempre sia lodata) a un corteo, ma non ti dà fastidio l’essere stato esposto a tonnellate di mascolinità tossica praticamente da quando sei nato?
Non mi dilungherò su quanto la classicità proponesse un modello di sessualità ben diverso dal nostro: per alcuni sarebbe troppo traumatico scoprire come i militi romani svernassero insieme in Gallia o come gli Spartani (modello di virilità) si intrattenessero con i loro amichetti. Di fatto penso che oggi noi uomini (etero fino a prova contraria) opponiamo delle serie resistenze psicologiche verso un modello di sessualità che non sia quello GIUSTO®.
Basta vedere cosa ci ha propinato l’intrattenimento cinematografico di grande distribuzione negli ultimi 30 anni: il maschio figo-della-madonna con i muscoli gonfi che salva la situazione, che non deve chiedere mai, preferibilmente con la retorica del trauma passato che lo rende tenebroso e affascinante (minchia zio, e fattela un po’ di psicoterapia), con la bellissima di turno che cade fra le sue braccia; mai una défaillance.
Io la prima volta che ho avuto una défaillance credo di non essere riuscito a spiccicare parola per minimo 12 ore. D’altronde sono Marco Gavioli, onesto docente di lettere, tot. lauree, tot. strumenti suonati, tot. libri letti, mi piace fare lo splendido e farti sapere quando pedalo su Strava (God bless Instagram), sono attento al successo e al prestigio nella società in cui vivo, assertività sempre etc. etc.
Queste sono solo alcune forme della mia personale mascolinità tossica, su cui cerco di lavorare: non è mai tardi per smettere di farsi rovinare la vita. Tanti di noi devono ancora evolversi da quando si faceva a gara a chi ce l’aveva più lungo in spogliatoio alle scuole medie.
Il Pride però ci ricorda che esistono, fortunatamente, altri modi per trovare la propria identità (a patto che si voglia avere un’identità) e secondo me, coloro che trovano il maggior giovamento da queste manifestazioni sono coloro che le boicottano.
Il Pride è più utile agli etero, trust me.
Quindi la questione finale è: quanti automatismi da mascolinità tossica sono installati nella mia testa? Lancio questo J’accuse contro me stesso e invito altri a farlo.
10 luglio 2021 Siamo nel giardino di casa. Il prato è di un verde che fa male agli occhi; è luglio, la maturità è finita, mi sono appena licenziato dalla scuola in cui ho insegnato negli ultimi 5 anni. A causa della pandemia mi curo generalmente meno del mio aspetto; infatti sono seduto su una sedia, Claudia ha un paio di forbici in mano: una bava di vento sparge i miei capelli nella natura circostante. -Dovresti andare da un barbiere. -Taglia, taglia, tanto che cazzo me ne frega.
Stiamo per fare un viaggio pieno di sudore e sto per spiaccicare la testa dentro a un casco per diverse ore al giorno. Bianche concrezioni saline mi si stamperanno lungo la maglietta ogni giorno: l’estetica è l’ultimo dei miei problemi. -Non ho voglia di andare dal barbiere. -Ah, io taglio, ma poi non lamentarti se sembri un frate.
Forte della mia tonsura do un’ultima occhiata al mio mezzo: una bicicletta gravel Cannondale appena ritirata in negozio; mi sembra impossibile poter amare così tanto un oggetto. “Ti è arrivata la bicicletta?” è stata l’ultima frase sensata che mi ha detto mio padre prima di morire.
Ci buttiamo su un treno, aspettiamo di raggiungere Trieste. Abbiamo più o meno in mente un itinerario, l’abbiamo buttato giù a matita su un quaderno -la mia grafia sghemba e quella più educata di Claudia- ma di base le gambe fanno quello che vogliono.
Il capoluogo friulano è un luogo della mente (passa il fiume e non rimane niente): ci abbiamo fatto una delle nostre prime vacanze insieme nel 2019, in un’estate che per ovvie ragioni sembra lontanissima per prospettive e atmosfere. Lavoravamo parecchio tutti e due e avevamo principalmente voglia di conoscerci perché stavamo insieme da una manciata di mesi. A tre anni di distanza ricordavo precisamente quali discorsi avevamo fatto in quali punti della città. Vicino al porto Claudia mi aveva raccontato di quando si era persa nella tempesta con gli scout ed erano stati costretti a bivaccare. Poi avevamo mangiato un gelato sul mare di notte e avevamo deciso di andare in Turchia prima o poi.
Arrivati a Trieste mi rendo conto di aver fatto la prima idiozia: ho lasciato le chiavi del lucchetto della bici a casa. Mi vergogno, ma non ho alternative a ritardare di un giorno la partenza per la Slovenia, spedire il lucchetto vecchio a casa e ordinarne uno nuovo grazie a quella divinità nefasta che è Amazon. Bisogna anche dire che siamo insegnanti precari e il tempo, d’estate, non ci manca.
Abbiamo tempo, visitiamo Aquileia: nella basilica di Santa Maria Assunta c’è un pavimento mosaicato enorme; un po’ invidio gli occhi da archeologa di Claudia, la rete di significato che può creare nella sua testa un mosaico paleocristiano. Ci bagnamo nel mare acquitrinoso di Grado, le alghe sono dovunque. Claudia ama la balneazione, io no.
Dormiamo in un b&b carino con quelle lenzuola un po’ kitsch da turisti con stampe di spiagge tropicali. La padrona di casa è gentile, sudamericana, chiacchieriamo a colazione. I suoi bambini sono energici e suonano strumenti classici: violoncello, violino, pianoforte. Mi qualifico come diplomato in conservatorio e la signora mi fa mille domande sulla pedagogia musicale, manco fossi un Leopold Mozart di passaggio. Invidio un po’ l’entusiasmo giocoso dei ragazzini nell’approcciarsi agli strumenti.
Iniziamo a pedalare senza voltarci indietro, finalmente, e l’uscita da Trieste ci sega subito i muscoli delle gambe. Non mi ero davvero reso conto che la città fosse così incuneata nel golfo: a un tiro di schioppo ci sono le ultime Alpi e non ci sono scorciatoie per evitarle. Fatichiamo, il gps mi manda in sentieri impraticabili. A più riprese dobbiamo spingere le bici. Dobbiamo ancora imparare a non fidarci completamente della tecnologia. Mi salta una vite dall’attacco delle scarpe, impreco: non posso permettermi di andare via senza gli attacchi ai pedali. Vado in una ferramenta, il commesso è gentilissimo ma non può aiutarmi. Voglio comprargli comunque qualcosa perché mi è simpatico: Claudia con pazienza infinita mi fa notare che non ho un impermeabile. Ho questa strana idea per cui in estate, suvvia, non può certo piovere.
Esco dalla ferramenta con un impermeabile kaki di plastica, poco dopo un meccanico mi sistema lo scarpino, ride quando faccio per pagarlo. Il sole ci graffia, passiamo sotto un paio di gallerie austroungariche e passiamo la frontiera. Sotto il cartello del confine di stato qualcuno ha scritto con la bomboletta No borders, e ha ragione.
SLOVENIA La lingua sui tir e sulle insegne dei locali inizia a cambiare. La Slovenia ha ampi prati e caseggiati semi nuovi. Il dislivello che abbiamo affrontato inizia ad essere notevole. Pedaliamo lungo ampie strade, auto di turisti ci sfrecciano accanto. Claudia crolla: ha le mestruazioni, non conosce ancora le necessità nutritive della fatica (io ho imparato quando e cosa mangiare quando pedalo sulle lunghe distanze), le viene da piangere. Mi sento inutile e incapace di capire fino in fondo come si sente. Siamo appena partiti e già ce la caviamo male. Eppure la meta, la prima tappa, è troppo vicina per tornare indietro, oltre al fatto che ormai abbiamo scollinato e la gravità, finalmente a nostro favore, ci sta riconducendo verso il mare.
Un vecchietto attacca bottone, parla un buon italiano, ci dice che l’ha studiato al liceo. Ci racconta che ama l’Italia, sorride e poi conclude con un “Campioni d’Europa!”; ah giusto, qualche giorno prima abbiamo vinto gli europei di calcio.
Claudia dorme un po’ appoggiata a un tavolo di una locanda chiusa, mangia qualche albicocca. Abituata com’è alla fatica (ha fatto da sola in passato dei trekking considerevoli), si riprende e scopriamo che possiamo risparmiare qualche chilometro di fatica con una ferrovia malconcia. Ci trasciniamo verso un treno tardo sovietico su cui generazioni di writers hanno lasciato il loro segno. Il controllore non fa una piega quando gli faccio capire che non c’era modo di acquistare il biglietto in stazione. Prende i miei euro con gesto rapido, mi restituisce un resto che non corrisponde: è solo la prima delle mille piccole truffe che subiremo quando non disporremo dell’importo esatto in contante.
FIUME Avevo avuto anni fa una liaison con una ragazza serbo-croata che mi aveva consigliato qualche libro sui suoi luoghi d’origine: un diario di viaggio in Jugoslavia di Rebecca West, Black lamb and grey falcon, e il disincantato Maschere per un massacrodi Paolo Rumiz; la seconda lettura era stata ben più angosciante della prima, forse perché il reportage di Rebecca West è ambientato nella prima metà del Novecento, mentre il libro di Rumiz nella seconda, precisamente negli anni ’90. Le lotte fratricide di quel decennio sono avvenute dietro l’angolo di casa mia e io ne sapevo pochissimo: d’altronde, se la parola “Srebrenica” non ti dice nulla, credo tu non possa dirti legittimamente cittadino europeo.
Tra i due libri consigliati avevo tentato di leggere un corposo saggio storico, Le guerre iugoslave di Joze Pirjevec ma mi ero presto smarrito in quella mole di dati e avevo abbandonato il libro a bordo letto. Avevo comunque necessità di documentarmi sulle vicende della penisola che mi accingevo ad attraversare: il fatto che nella mia testa fosse tutto molto fumoso era davvero imperdonabile.
Eppure ero al mondo quando tutto quel sangue scorreva al di là dell’Adriatico e se ripenso ai miei giochi puerili, ritrovo frammenti delle guerre iugoslave; ad esempio, alle elementari giocavamo a fare il telegiornale nella mensa di scuola, tra il primo piatto e il secondo. Davamo con aria seriosa delle notizie sceme per prenderci in giro (edizione straordinaria: tizio ama tizia etc. etc.) e poi scimmiottavamo i giornalisti veri che sentivamo in televisione: ripetevamo a pappagallo le espressioni che nostro malgrado ci si imprimevano in testa.
Credo fosse un rito piuttosto comune nell’Italia dell’epoca la famosa cena patriarcale®, col capofamiglia che tornava dal lavoro circondato da un alone di sacralità, per cui durante il TG bisognava osservare un rigoroso silenzio*
*perché il papà è stanco e ha lavorato tutto il giorno per mantenerti e ha il diritto di trovare la cena pronta anche se in fondo però lavoro anch’io e devo pure occuparmi dei figli e della casa e hai finito i compiti? hai fatto la cartella? stasera vai a letto presto e comportati bene e fai il tuo dovere. (flusso liberamente ispirato alla verbosità di mia madre negli anni ’90);
ebbene, nel Tg-Scemo della mensa scolastica, la parola che ripetevamo più spesso senza comprenderne il significato era solo una: “Sarajevo”.
Per lo stesso motivo mia sorella, più giovane di me di 5 anni, diceva spesso la parola “Bin Laden” quando faceva lo stesso gioco.
Tornando alla ragazza Serbo-croata di cui sopra: a me piaceva Gabriele D’Annunzio, a lei no. Per questo scherzavamo spesso sulla città di Fiume, o per meglio dire Rijeka. Io mi lamentavo della “Vittoria mutilata” e lei faceva finta di prendersela. Le dicevo anche “Voi Serbi fate scoppiare le guerre mondiali” e si rideva. Mi sembrava strano visitare per la prima volta quell’angolo di costa che conoscevo solo attraverso l’impresa del Poeta-Vate; che strano vedere Fiume concretizzarsi, dopo che ne avevo parlato decine di volte ai miei alunni di quinta. Forse i professori dovrebbero fare esperienza del mondo intero prima di iniziare a insegnare.
Rijeka è un tiro alla fune tra bellezza italiana e brutalismo sovietico, tra cemento a vista, mancanza di manutenzione agli edifici fuori dal centro storico, giganti grigi residenziali che si ergono all’orizzonte. La piazza del teatro tuttavia è piacevole. Ci fermiamo lì, bevo una birra ghiacciata. Escludiamo un paio di b&b perché troppo degradati (lo schizzinoso della coppia sono io) e finiamo in un palazzo simil italiano che sa di muffa, tutto sommato carino: la stanza è piena di suppellettili da discount e c’è una tv a tubo catodico.
Mangiamo il pescato del giorno in un ristorante sul mare la sera, ci sembra tutto facile; ho già nostalgia di casa, mi appiccico al telefono e sento un po’ di amici. Gli avventori dei bar sotto casa sono un po’ inquietanti, ma la mattina c’è uno splendido mercato che occupa più di metà piazza. La sera passeggiamo in centro e accade qualcosa di straordinario: sento della musica in lontananza come un miraggio uditivo; è una massa sonora enorme, chiara, persistente. Mi suona familiare e riconosco il finale della IX sinfonia “Dal Nuovo mondo” di Dvořák; è troppo viva, non può essere registrata. Ci avviciniamo e scopriamo che una grande orchestra sinfonica sta facendo delle prove aperte al pubblico in un cortile. Il direttore ferma la compagine, dà indicazioni ai legni e ai violoncelli, poi riprende. Mi emoziono un po’: sebbene quella ruotine di prove e concerti mi annoiasse incredibilmente ho suonato quella stessa sinfonia in conservatorio, anni prima.
La mattina facciamo colazione al mercato; come al solito impazzisco e compro più frutta e più pane di quanto non riusciremo a trasportare. Sono euforico. Seduta in un angolo c’è l’immagine più tenera che si possa immaginare: una vecchietta sorride in una ragnatela di rughe mentre seduta a terra vende a prezzi irrisori mazzetti di prezzemolo. Ci si scioglie il cuore a entrambi e glieli compriamo tutti, forti della potenza dell’euro in queste zone.
Le mascherine le hanno in pochissimi; mentre giro per il mercato ricevo una telefonata che non ho voglia di ricevere: la classica madre disperata per il figlio che abbiamo appena bocciato. Mi tiene al telefono una ventina di minuti buoni: praticamente una seduta di psicoterapia. Pioviggina, e ormai è ora di ripartire.
POVILE (Croazia) Presto raggiungiamo il mare e ce lo teniamo sulla destra mentre pedaliamo verso sud. Quanti chilometri faremo oggi? Dopo poco tempo il gps ci manda in una strada laterale secondaria e le macchine dei vacanzieri si diradano. Il dislivello è affrontabile, e saliti di quota iniziamo a vedere il golfo di Buccari, stupendo. Di nuovo penso a D’Annunzio, alla “Beffa di Buccari“, a quei siluri lanciati invano contro l’esercito nemico.
Il paesaggio si fa roccioso, brullo e deserto, il cielo è ancora grigio, c’è qualcosa che ricorda le coste del Nord Europa, mi diverto a immaginarmi pedalare tra fiordi e faraglioni della Scandinavia. Mi vola dalla tasca una mascherina, mi fermo e impazzisco per cercare di ritrovarla, ma chissà dov’è finita. Claudia mi dice “Va beh dai, ne raccoglierai un’altra da terra più avanti”. Dopo ore di pedalata ci fermiamo in un minuscolo centro abitato, beviamo qualcosa di zuccherato e mangiamo un panino. Il cameriere ci dice che lui tifava Italia alla finale degli europei, io sorrido e mi godo quel momento di semplice complicità.
Arriviamo a Povile in tardo pomeriggio, ogni ristorante ha una specie di barbecue esterno in cui si arrostisce un maialino su uno spiedo girevole. La camera è carina, la doccia sublime. C’è ancora chiaro, si può fare il bagno in mare anche se fa un po’ fresco. In spiaggia c’è una risorgiva di acqua gelida che viene dalle montagne e sfocia in mare. Tutta la piccola baia è striata di flussi d’acqua dolce freddissima, me ne accorgo ben presto. Claudia ride. Guardiamo il tramonto e beviamo una birra. Sento al telefono il mio amico Simone, compagno di conservatorio. Ha un’audizione, chiacchieriamo un po’ di musica professionale, un mondo di cui ormai non faccio più parte.
La mattina mi accorgo di aver storto non so come un paio di dentini della corona, vicino al pedale. Eseguo una rapida ricerca: non esistono negozi di biciclette nel raggio di un centinaio di chilometri. Guardo un tutorial su YouTube, mi faccio prestare due attrezzi dalla foresteria e riparo il deragliatore alla bell’e meglio. Puntiamo verso l’interno della Croazia a questo punto del viaggio, dobbiamo attraversare delle montagne, ci attende parecchio dislivello.
VELEBIT Il massiccio del Velebit e il parco naturale circostante costituiscono la più estesa area protetta della Croazia. La veduta mi ricorda incredibilmente la Lessinia, solo che è tutto molto più deserto. Iniziamo a pedalare in salita, la presenza antropica scompare gradualmente. Non ci sono rifugi, solo qualche isolato parco eolico. Dopo pochissimo tempo non vediamo più il mare. La cosa ci disorienta un po’. Mangiamo in una nicchia a bordo sentiero, i sassi e lo sterrato ci stancano non poco.
Nel giro di pochissimo il meteo cambia. Mi spavento un po’: nuvole nerissime e vento forte incombono. Ringrazio il fatto che il gps sia resistente all’acqua e soprattutto il fatto che ho una maglia termica e un impermeabile comprato due giorni prima. Mi guardo attorno perché ho sempre questa mania di immaginare il peggior scenario possibile, per non farmi trovare impreparato. Vedo qualche rudere in cui potremmo eventualmente ricavare un bivacco, manco fossimo sperduti in Nepal. Mi manca la civiltà, ma al prossimo centro abitato mancano ancora troppi chilometri.
Come non bastasse, iniziamo ad intravedere cani randagi. Un gruppetto attraversa in fila il sentiero in cui stiamo pedalando. Fortunatamente non ci vedono; mi avevano avvertito: non sempre sono amichevoli. Inizia a piovere. un temporale estivo di montagna, per diversi minuti è torrenziale, poi si calma. Siamo fradici e abbiamo freddo. Pedaliamo lungo una mulattiera ricavata in un bosco di conifere. Qualche sasso viene portato dalla pioggia sulla nostra traiettoria. Penso solo che non dobbiamo smettere di pedalare.
Arriviamo finalmente a una strada degna di questo nome. C’è qualche automobilista, un baracchino che vende miele e formaggio locali. Finalmente la tempesta si affievolisce ma il vento resta. Troviamo finalmente un rifugio. Cerchiamo di asciugarci un po’ e di mangiare qualcosa di caldo. Non vedo l’ora di trovare un posto dove scaldarmi e dormire. Iniziamo a scendere di quota, il gps ci porta in un paesino che mi sembra New York: c’è vita e ci sono locali aperti.
Ricomincia la pioggia e ci imbattiamo in una piccola chiesa dove si celebra un matrimonio ortodosso. Tutto è molto slavic-kitsch, le ragazze sono carine, con i capelli tinti e i rossetti esagerati. Gli uomini hanno vestiti di taglio dozzinale, verosimilmente sintetici. C’è una piccola orchestrina con fisarmonica che suona musichette folkloriche locali. Gli uomini sono già belli alticci quando i novelli sposi escono dalla chiesa. Una signora, forse la madre della sposa ci nota, fradici e infreddoliti, ci offre un vassoio pieno di biscotti dolci speziati. Ringraziamo e porgiamo i migliori auguri. Gli sposi e gli invitati ballano, qualcuno spara in aria colpi di fucile a salve (credo). Un motivetto festoso ci rimane intesta.
Troviamo un albergo stile alpino a Otočac, il prezzo è buono, fuori il meteo rimane terribile. Gli arredi sono da stagione sciistica anni ’80, c’è un senso di tristezza: sicuramente ai tempi d’oro del patto di Varsavia quel posto doveva essere una bomba. Mi ricorda un po’ l’Overlook Hotel di Shining, se non che ci sono madonnine e cristi qui e là oltre ad un piccolo altare votivo nella hall; la sala da pranzo è enorme, scarsamente illuminata e deserta. Appese alle pareti ci sono alcune fotografie degli antichi fasti: capodanni in abito grigio stalinista per gli uomini, in vestito lungo per le donne.
C’è un’officina esterna dove ci fanno legare le biciclette. La ragazza alla reception, che scopro essere la figlia dei proprietari ha i capelli di un biondo slavato, parla un inglese abbastanza fluente con un forte cadenza da Est-Europa. Ha un paio di occhialini sottilissimi dalle lenti rettangolari. Credo abbia all’incirca la mia età. Le sorrido, sembra si sia dimenticata di essere una ragazza carina; è quasi esterrefatta dalla nostra presenza. Sbrighiamo le formalità per il pernottamento. Bevo un amaro locale (me lo offre) e nel frattempo le chiedo due cose sul paese. Mi dice che c’è un bel museo sulla storia di Otočac. Le dico che se solo avessi tempo lo visiterei volentieri. Immagino un universo parallelo in cui passiamo la notte insieme.
Sul retro della hall in c’è una gigantesca pompa di calore, segno che comunque la struttura ha beneficiato di qualche investimento; forse siamo solo in bassa stagione; la ragazza ci fa appendere i vestiti fradici su una scala in assenza di uno stendino. Saliamo in camera. Moquette rossa per terra, quadri con vecchi acquerelli paesaggistici che sembrano usciti da una poesia di Guido Gozzano, mobiletti in legno di mogano con vasi pieni di fiori finti sono ovunque. La doccia calda è libidinosa. Chiamo mamma, sì sto bene, ogni tanto penso a papà, tutto ok, Claudia sta bene, ciao mamma. Noto un menù in camera. Fuori imperversa ancora la tempesta e il nostro progetto di esplorare il paese per cena si affievolisce rapidamente anche se un po’ mi dispiace perché trovo sempre interessante studiare la “fauna” locale, come un antropologo.
Scendo dalla ragazza, le chiedo se possiamo mangiare qualcosa al ristorante dell’albergo. Sono le 21:50. Sul menu c’è scritto che la cucina chiude alle 22. La ragazza mi dice che deve chiedere alla madre, che è anche la cuoca della struttura. Torna e mi dice “We stop working at 10 o’clock but now it’s 10 minutes to 10, so… why not”. La situazione ci sembra piuttosto comica: l’hotel è deserto e il riferimento certosino a quanto riportato sul menù ha qualcosa di nevrotico.
Ci sediamo sotto un minuscolo fascio di luce nella hall gigantesca. Ordiniamo poche cose, ma la ragazza della reception, nonché cameriera del ristorante ritiene di portarci tutto su di un carrellino metallico che cigola come un cinghiale inferocito; è tutto incredibilmente anacronistico. Ci viene da ridere.
A colazione, grazie alla luce, noto degli enormi (davvero enormi) quadri fatti al punto croce appesi ad ogni parete. Rappresentano scene boschive, bucoliche: mi ricordano casa di mia nonna. Chiedo alla ragazza informazioni e lei mi conduce a vederne altri, mi spiega che li ha fatti sua madre “during the long, long winter…”, poi con un certo orgoglio mi fa capire che la maggior parte dei quadri siano stati realizzati senza traccia, cioè disegnati direttamente dalla signora. Immagino questa vecchina curva accanto a un camino che sverna cucendo con la neve che turbina fuori. Fa sempre tutto un po’ ridere.
Giuro che era 2m x 1m.
SPALATO La montagna e il suo freddo umido ci ha stufati. vogliamo tornare rapidamente verso la costa. Pedaliamo su un lungo nastro di asfalto che taglia la campagna a sud del Velebit. Campi, allevamenti, chiesette, minuscole scuole di paese, bar con uomini seduti fuori che ci salutano, pompe di benzina isolate. La pedalata è lunga, in pianura, il pomeriggio siamo stanchi. Arriviamo a una minuscola stazione, pare che un treno possa portarci fino a Spalato. Il convoglio è in partenza, pieno di gente, ma il capostazione mi blocca. Non capisco perché mi abbia fermato, ma lui non parla una parola di inglese. Ricorro a google translate e scopro che le bici viaggiano solo sul treno notturno, che parte alle 4 del mattino. Mancano diverse ore.
Facciamo due passi attorno alla stazione, non sappiamo bene come far passare il tempo. Ci sediamo in un bar, osserviamo la gente; è domenica e c’è un prete giovane e bellissimo in abito talare che mangia patatine a un tavolo con una famiglia. Bevono birra e ridono. Torna a far fresco e mi accorgo che lì vicino c’è un “Adrenaline Park”, uno di quei parchi-divertimenti dove devi fare percorsi fra gli alberi da imbragato e altre attività. Convinco Claudia ad andarci: ci piacciono questi posti, per il suo compleanno ci eravamo fatti un giro a Bosco Park, in Lessinia.
Arrivati al parco, vicino ad un fiume la natura è effettivamente incantevole. Due cani enormi ci abbaiano e ci vengono incontro. Le attrazione del parco sono semi nuove, eccitanti, ma scopriamo con raccapriccio che il parco è chiuso. Tra poco farà buio ma c’è ancora luce. Claudia si piazza su un tavolo da pic-nic e cerca di dormire, io mi metto a studiare storia greca. Due giorni dopo ho un esame da remoto da dare a La Sapienza di Roma. Non so bene perché ma nella follia del 2021 (che mi sono vissuto peggio del 2020) mi sono iscritto alla magistrale in Storia e Letteratura del mondo antico a Roma. Chissà se porterò mai a compimento questo ennesimo progetto.
Sono impreparato, l’esame sarà una barzelletta, ma la mia filosofia universitaria è “Mai, per nessun motivo, saltare un appello”. Prendiamo due cose in un alimentari per la cena, la cassiera avrà 16 anni, mi sorride, e andiamo verso la stazione deserta. In giro vedo qualche container con su scritto Evergreen, il che mi ricorda l’album di Calcutta e la nave da cargo che si è bloccata nel canale di Suez pochi mesi prima, ingolfando i trasporti globali e il nostro modello di sviluppo economico ignominioso, già ampiamente provato dalla pandemia. Mi ricordo di aver letto una cosa tipo “Il canale di Suez bloccato da una nave incagliata è praticamente il capitalismo a cui è venuta una trombosi”.
La stazione è deserta, ha ricominciato a piovere, è notte, fa freddo e torna uno di quei momenti in cui mi sento addosso tutta la solitudine dell’universo. Telefono alle mie sorelle, in vacanza pure loro. Stendo un asciugamano di microfibra sul pavimento di una vecchia sala passeggeri e con la testa appoggiata allo zaino provo a dormire. Quando saliamo in carrozza alle 4 siamo morti di sonno. Sul treno non c’è spazio, fa un caldo infernale, i portabici sono tutti occupati, la gente dorme dovunque, anche nel locale biciclette. Non c’è modo di legare da qualche parte i nostri mezzi, ho il terrore che lasciandoli incustoditi qualcuno possa scendere portandoseli via. Non c’è modo di sapere quante e quali fermate farà il treno. Nessuno indossa la mascherina. Claudia cerca un posto, percorre tutte le carrozze fino a quando non apre una delle porte di passaggio e le si spalanca davanti la fredda notte balcanica, i fari rossi posteriori del treno e l’urlo indemoniato del vagone sulle rotaie: la porta dell’ultimo scompartimento non viene nemmeno chiusa.
Il capotreno mi prende di mano 200 corone e promette di riportarmi il resto (sostanzioso resto). Lo aspetto un’ora. Quando torna gli chiedo il mio denaro e lui mi guarda con occhi di ghiaccio facendo un cenno tipo “Scusa non capisco di cosa tu stia parlando” con un’arroganza che mi fa aggrovigliare le cervella dalla rabbia. Claudia si accascia su un sedile con la mascherina sugli occhi per proteggersi dal neon ronzante; io mi rassegno a guardare le biciclette. Maledico il giorno in cui siamo partiti.
Spalato è oggettivamente bella, ci ha vissuto anche quella testa calda del Foscolo. Ci infiliamo nella prima camera d’ostello che troviamo (un palazzone gigante ben fuori dal centro), tiriamo giù completamente le tapparelle e moriamo di sonno. La sera siamo pronti ad esplorare; Claudia mi spiega che il centro di Spalato era in origine la residenza monumentale dell’imperatore Diocleziano. Le mura romane e le mura veneziane si intersecano di continuo, l’azzurro del cielo si sposa col marmo e la pietra delle vestigia archeologiche. Faccio un miliardo di foto ma una in particolare, sotto una cupola, mi ricorda la camera degli sposi di Mantegna.
I turisti sono ovunque, anche per il fatto che in queste zone ci hanno girato la serie tv “Il trono di spade”, che io non ho visto: in questo senso l’oggettistica in vendita raggiunge livelli di cafonaggine che ho visto poche volte. Claudia cerca pietre di riuso, cerca la storia stratificata della città. Mi bocciano giustamente all’esame di storia greca e andiamo a farci un tuffo in spiaggia. Ceniamo guardando il mare. Mi viene un po’ di paranoia per il fatto che non abbiamo un’assicurazione sanitaria. In giro i casi sono in risalita. Ne attiviamo una on-line e dopo aver girato ogni anfratto del centro storico ci prepariamo a ripartire. Ci sono torrette fortificate che ci ricordano un covo di pirati, la sera si prepara un concerto d’opera proprio nella piazza centrale. Ci sono angoli veneziani con palmizi e biancheria candida stesa ad asciugare.
Il mio amico Paolo mi scrive “Andate a Dubrovnik, è bellissima”. Decidiamo di dargli ascolto perché ha una barca ormeggiata a Grado e di Adriatico se ne intende. Passando vicino al terminal delle corriere spalatine ci imbattiamo in una scena che ha dell’incredibile: c’è una ragazzina bionda, avrà poco più che 15 anni che litiga furiosamente con un nerboruto autista quarant’anni più vecchio di lei. Sembra inglese, forse tedesca, si sta lamentando perché l’autista non le ha restituito il resto. Grida arrabbiata, rompendo la parete di ritegno che di solito domina i rapporti tra sconosciuti. L’autista guarda altrove, è serissimo e scocciato. Chiama un collega e gli chiede se per caso l’ha visto truffare la ragazza. Il collega fa un cenno di diniego: è tutto surreale. Una battaglia contro i mulini a vento.
DUBROVNIK Stupenda quanto Spalato, spiagge incantevoli. Ci inerpichiamo per i vicoli e passeggiamo lungo le alte mura. Ci sono segni della dominazione veneziana nelle architetture, il porto fu un punto nevralgico per il commercio mediterraneo verso l’impero Ottomano. Mi colpiscono sempre questi luoghi che disponevano di enormi ricchezze in un passato remoto e ora sono poco più che delle enclave per turisti, per quanto affascinanti. Chiamo il mio professore di lettere delle superiori, grande viaggiatore, chiacchieriamo qualche minuto. Ci sono cantieri di ristrutturazione di antiche case semi abbandonati, in balia di colonie di gatti, li esploriamo abusivamente.
MONTENEGRO Che dire, è decisamente ora di uscire dalla Comunità Europea, con tutto quello che ciò comporta: punto primo, col cavolo che trovi dove dormire su internet, visto che i dati sul telefono costano 3,5 centesimi al megabyte. Partiamo presto da Dubrovnik e pedaliamo molto, le gambe stanno bene e il clima ci arride.
Siamo su un sentiero scosceso, in piena macchia mediterranea, non manca moltissimo alla frontiera. Cerchiamo un posto dove poterci fermare per prenotare un alloggio. Ad un certo punto la salita in mezzo al bosco si fa ripidissima e Claudia forza un po’ sui pedali. La catena schizza fuori dal deragliatore come una corda di violino che si rompe e si incastra nella guaina metallica che protegge il cambio. Bisogna fermarsi, disincastrarla è un lavoro spinoso e abbastanza delicato, non posso permettermi di perdere la pazienza. Il caldo di mezzogiorno non lascia tregua, la polvere del sentiero nemmeno. Ribalto la bici e inizio a lavorare con un piccolo multi-attrezzo portatile. Nel giro di pochissimo grondo, le gocce di sudore mi scendono fino al naso, mi bagnano gli occhiali, mi ungo le mani con l’olio della catena. Svito la guaina dove posso, faccio fatica a risolvere l’inghippo. La cattiveria verbale che mi esce dalla bocca mentre lavoro è impressionante. Creo involontariamente attorno a me un buco nero di tensione e nervosismo. Claudia si mette a piangere. Io mi metto a ridere. La bici torna a posto e io dimentico tutto all’istante. Voglio solo un’aranciata fresca.
Usciamo dalle sterpaglie e torniamo sulla strada principale, ci fermiamo in un bar. Ho bisogno di bere un secchio d’acqua. Ci sediamo sotto una tettoia e un vecchio avventore si avvicina; è curioso, gioviale e sorridente, l’uomo più simpatico che abbiamo incontrato in tutto il viaggio: senza ammettere discussioni piazza una birra davanti a me e una coca cola davanti a Claudia. Cin-cin amico. Lui si butta giù d’un fiato un brandy. Incredibilmente, considerato che siamo in un paesino sperduto fra Croazia e Montenegro parla due parole di inglese, che gli sono sufficienti per conversare con noi. Ci dice che faceva l’autista di autobus, che ha visto mezzo mondo. Mi verrebbe voglia di chiedergli cosa stesse facendo mentre Slobodan Milošević macellava i suoi connazionali, con sincero interesse storiografico, come quando chiedevo a mia nonna dei nazi-fascisti. Le persone che hanno vissuto durante un determinato periodo sono preziose. Ovviamente non ho modo di chiederglielo, è più che altro lui che fa domande a noi, interessato e divertito dalla nostra avventura. Non riusciamo a rifiutare un secondo giro. A questo punto io sono ubriaco, Claudia in iperglicemia.
La frontiera montenegrina è affollata. C’è una buona fila di macchine e tir; filo spinato al di sopra delle recinzioni; è la prima volta nella mia vita che esco dal grembo amichevole dell’Europa, la prima frontiera che attraverso. Qui mi rendo conto del mio fondamentale privilegio, che non mi sono meritato in alcun modo: sono cittadino italiano, ho una carta d’identità europea, ho la pelle bianca. Potremmo parlare anche della possibilità che ho avuto di istruirmi, del fatto che io sia uomo ed eterosessuale (quest’ultima condizione almeno fino a prova contraria), ma questa è un’altra storia.
Superiamo la fila di auto in bicicletta (un po’ ci godo guardando il disappunto degli automobilisti). Abbiamo il green-pass a portata, nemmeno me lo controllano. Guardano i miei documenti e mi fanno cenno di via libera. Guardo nuovamente il filo spinato mentre si apre davanti a noi un dolce declivio. Mettiamo qualcosa sotto i denti in una stazione di servizio. Ad un certo punto la strada si interrompe sul mare e ricomincia 500 metri dopo. Per attraversare quel fiordo bisogna imbarcarsi su un traghetto che parte ogni 10 minuti e costa poco più di un euro. Non mi è chiarissimo perché non ci sia un ponte. Un signore scende dall’auto e mi chiede amichevolmente dove vado. Mi dice che vive in Francia da anni e io passo felicemente al francese. Parla molto correttamente. Dice che è emigrato ma che il Montenegro è la sua casa e sta andando a trovare i parenti. Ci augura ogni bene.
Abbiamo una prenotazione per una casa vacanze che si trova su un’isoletta. Per arrivarci passiamo vicino alla pista di un minuscolo aeroporto. Ci sono famiglie con bambini che guardano gli arei rombanti partire e atterrare poche decine di metri sopra le loro teste. Li guardo anch’io ipnotizzato. Ho salvato delle mappe sul telefono. La casa, tuttavia, risulta completamente introvabile. Abbiamo l’impressione di trovarci in una specie di camping abusivo. Nessuno parla una parola di una lingua a noi intelligibile.
Chiamo il numero, una ragazza mi risponde. Parla un francese stentato. Le faccio capire che abbiamo una prenotazione, forse non se n’è accorta. Dopo avere esaurito completamente il credito nel giro di un minuto di chiamata, credo di aver capito che arriverà qualcuno. Dopo quindici minuti arriva un uomo minaccioso su una volvo nera vecchissima senza targa; è visibilmente alterato. Mi parla nella sua lingua, non lo capisco. Mi porta a una casa che è poco più di un rudere, sudicia all’inverosimile, senza internet. Per ben 7 volte mi fa capire che alle 10 (usa le dita delle mani) della mattina dobbiamo andarcene (fa il gesto del “fila via”). La maleducazione è insopportabile. Lo abbandono lì mentre mi sta ancora parlando e fuggiamo via mentre ci grida contro qualcosa.
Torniamo sulla strada principale, non sappiamo che fare. Tra poco farà sera. Dopo un po’ vediamo il cartello di un affittacamere, vicino a un cantiere aperto. Puntiamo verso lì e ci apre una signora bizzarra: capelli platino, abbronzatura esagerata vestito leopardato. Non ricordo se avesse effettivamente dei bigodini in testa o se me lo sia sognato. Però è amichevole e parla un buon inglese, si chiama Tamara. Mi dice che ha lavorato in Germania. Mi fa capire che non ha posto nel piano turistico, ma che ha una cameretta con un materasso in casa sua, se ci accontentiamo. Siamo felicissimi.
Ci fa mettere le bici in garage, ci accoglie nel suo appartamento. C’è la madre, una vecchia signora che guarda la televisione e ci sorride immediatamente. C’è un tizio palestrato sul punto di esplodere con gli stessi capelli color platino a spazzola, il compagno della padrona di casa. Ci viene da ridere, di nuovo l’apoteosi del kitsch: la casa sembra arredata interamente da cinesate plasticose, ma il tocco di classe è una luce colorata intermittente in sala e una specie di fontanella simil-giardino-zen accanto alla televisione. C’è un profumo da interni dolciastro che mi dà un po’ di nausea. In ogni caso l’accoglienza è ottima, il prezzo che mi chiede ancora di più.
Usciamo per andare in centro a cenare. Lungo la strada senza marciapiedi ci sono carretti enormi che vendono angurie; è tutto bellissimo. Mangiamo del pesce fresco che ci cucinano sotto i gli occhi, troviamo un atm per pagare il soggiorno, mi piego ad una commissione spropositata per avere un po’ di contante. Non capisco perché ma in Montenegro la valuta corrente è l’euro.
Regaliamo un’anguria alla nostra salvatrice e ripartiamo la mattina dopo. Arriviamo a Sveti Stefan con calma. Non ci sono vie secondarie, solo un’unica distesa di asfalto tra il mare e le montagne. Le macchine dei vacanzieri sono tante, non è una pedalata piacevole. Facciamo il bagno in una bella spiaggia. Foro una ruota. Siamo pronti ad attraversare un’altra frontiera, l’Albania è dietro l’angolo.
Ripartiamo, ma la mia ruota davanti fa i capricci. Deve avere un micro foro perché continua a perdere di pressione. Iniziamo a risalire verso l’interno, mi fermo a cercare di riparare la camera d’aria in un piccolo mausoleo semicircolare dedicato a qualche personaggio che non conosco. Le scritte d’altronde sono in cirillico. La salita inizia ad essere dura, il caldo di più. Quello che però ci inquieta è una colonna di fumo che sale davanti a noi. La roccia, la boscaglia e il vento secco che ci asciuga gli occhi sono micidiali. Addirittura ci cade addosso della leggerissima cenere bianca, come neve. Puntiamo verso l’interno, il mare si allontana sempre di più. Ci fermiamo a una minuscola edicola che ci vende dell’acqua fresca. Noto che tra le poche riviste, nascoste sopra la cassa ci sono delle riviste pornografiche abbastanza oscene. Dovevano essere una bomba 20 anni fa come tutto il resto.
Scendiamo nuovamente verso una cittadina, troviamo qualcuno che ci fa da mangiare, anche se la cucina sarebbe già chiusa. In cambio mi chiede di lasciargli una recensione positiva su Google e io mi domando a che gli serve, visto che siamo in un luogo veramente desolato. Scesi definitivamente a valle in una città che si chiama Bar iniziamo a vedere di nuovo residui di cemento sovietico, un centro commerciale in quella che doveva essere una casa del popolo o un ufficio del Politbjuro. C’è anche una basilica ortodossa imponente, di un bianco abbagliante e una serie di cupole d’oro: una tamarrata.
Ci stiamo muovendo verso un passaggio a livello quando a un certo punto mi sfreccia accanto un tizio su una bicicletta nera. Va insolitamente veloce, troppo veloce. Noto subito il rigonfiamento della batteria sul telaio anche se inforca una semplice mountain bike. Torna indietro e attacca bottone, parla subito inglese: “I’ve got a bike shop, come”. Chiacchieriamo e mi porta in una specie di ex pollaio trasformato in un’officina rudimentale. Eppure non è affatto male in arnese; gli mostro il cambio, me lo ripulisce e lo registra con sicurezza. Mi dice che di biciclette così belle non se ne vedono lì in giro, “si vede che sei straniero”.
La mountain bike nera l’ha assemblata lui con un motorino elettrico, mi dice che raggiunge i 60 all’ora. Credo una cosa del genere sia illegale in Italia. Guarda la bicicletta di Claudia, le gonfia le gomme e riteniamo di dargli qualcosa anche se non chiede soldi. Diventiamo amici e il suo fisico asciutto non mente: ci racconta che era un corridore.
Ci mostra uno sgabuzzino pieno di piccoli trofei, e poi ci dice che non corre più perché ha 4 bambine (un paio giocano lì in giardino, sono bionde e simpatiche) e una moglie. Ci chiede di seguire la sua pagina facebook (la reputazione su internet conta evidentemente moltissimo) e ci regala due portachiavi di gommapiuma colorata come quelli che ti davano i negozi di quartiere negli anni ’90. Ci dice di passare serenamente attraverso i binari lì a fianco, che tanto non passano treni. Attraversiamo un po’ guardinghi. Due minuti dopo sfreccia un convoglio merci.
Arriva il momento di inerpicarci su per l’ultima montagna del giorno, e poi volare in discesa fino a Scutari, in Albania. Il sole inizia a scendere. Ci ritroviamo in una strada di montagna, non c’è nessuno ed è uno dei momenti più suggestivi di tutta la vacanza. Fa quasi fresco. La meraviglia assoluta è un baracchino in cima che vende frutta fresca accanto a una fontana. Compriamo dei fichi grossi come pugni. Ci sono armenti per strada, placidi e sereni.
A questo punto ci imbattiamo nella scena più tristemente enigmatica di tutto il viaggio, che solo qualche giorno dopo un’amica più esperta di cose balcaniche mi aiuta a decifrare. Vediamo diversi cimiteri circondati di filo spinato, verosimilmente islamici. In alcuni punti le lapidi a forma di colonna quadrangolare sono ordinate, in altri punti ci sono solo delle pietre che sembrano essere state posate alla bell’e meglio. Sepolture frettolose durante la guerra di pochi anni fa? Ho cercato informazioni su quell’atomo di mondo su internet, non ho trovato nulla. In altri punti ci sono addirittura delle lapidi spezzate, quasi come fossero state prese a mazzate. Possibile mai che negli anni ’90 si sia fatto sfregio anche del sonno dei morti?
Pochi metri dopo dobbiamo fermarci spesso perché greggi attraversano la strada: tornano dal pascolo con i loro pastori, e appare a tutti piuttosto evidente che qui le pecore hanno il diritto di precedenza. Gli animali più placidi dell’universo pochi metri dopo i cimiteri presi a mazzate.
Arriviamo al confine: ci sono bancherelle di alimentari e souvenir lungo la strada. Come d’abitudine il nostro privilegio di italiani provvisti di documenti ci permette di passare la frontiera praticamente senza che nemmeno ci guardino in faccia.
SCUTARI A Scutari arriviamo che è sera. C’è un castello su un’altura, e la città è incastonata alla confluenza di due fiumi, la Drina e la Boiana; ci sono piccoli laghi, ponti di legno e un campo nomadi da attraversare per entrare in centro. Lungo il fiume ci sono enormi ristoranti a più piani con terrazze; mangiamo divinamente e prenotiamo una stanza. Quando arriviamo in centro scopriamo che la stanza in realtà non esiste e iniziamo a guardarci attorno. C’è una zona del centro con caseggiati bassi e nuovi, mi ricorda vagamente la scenografia del Far-West di Gardaland. Forse quella parte di città è stata costruita negli stessi anni.
Ci imbattiamo in un piccolo albergo che sembra accogliente, o comunque, se non altro, esiste. L’uomo alla reception parla italiano, come moltissimi in Albania; è cordialissimo, ci dice che l’Italiano lo parlano in tanti perché le trasmissioni di Mediaset arrivavano fin lì. Concludo che Berlusconi mi ossessionerà per il resto dei miei giorni. Mi chiedo altresì che idea debbano essersi fatti dell’Italia, tra soubrette, quiz milionari, comicità imbarazzante e varietà. L’hotel nuovamente si fa notare per gli arredi: la camera, con ornamenti di finto damascato e cuscini a forma di cuore, sembra il set di un film porno da due soldi; in corridoio troneggiano tavolini intarsiati e specchi in stile Versailles con finti marmi e statuette d’oro di delfini che solcano le onde. Una vera goduria. Il tocco finale è il sotterraneo dell’hotel: un set da locanda spagnoleggiante (mi sento improvvisamente un po’ Zorro) che però (inspiegabilmente) non ha fatto breccia nel cuore degli scutarini.
Siamo stanchi e vogliamo risparmiare un po’ di energie con il treno. Quello per Tirana parte alle 5 secondo internet. Prendiamo armi e bagagli e andiamo verso la stazione. Lo stato di abbandono di quella zona della città è notevole. Branchi di cani randagi urbani ci abbaiano. Da subito la stazione ha qualcosa che non quadra. La vegetazione spontanea ha prevalso sull’uomo. Stanchi e assonnati scopriamo così che i treni non circolano in Albania. La compagnia di stato semplicemente è fallita.
La cosa più divertente è che permane la pagina Instagram delle ferrovie albanesi in cui si pubblicano foto di treni arrugginiti mangiati dall’edera con didascalie tipo “La bellezza della natura”. Insomma, ci tocca pedalare. Torniamo in albergo e dormiamo fino a mezzogiorno. Facciamo colazione in uno splendido caffè con gazebo e tendine bianche. Mi decido ad andare da un biciclettaio per risolvere la mancanza di pressione alla ruota davanti. Troviamo un barista simpatico che ci offre acqua e ci fa da interprete: chiama un vecchietto da un garage disordinato, un meccanico evidentemente, e gli dice che mi serve un copertone nuovo. Il vecchietto scompare e poco dopo torna con un copertone di ottima qualità. Mi chiede scusa perché mi costerà parecchio purtroppo: l’equivalente di 18 euro. Rido dentro di me pensando ai prezzi in Italia.
TIRANA – POGRADEC Non ho idea di come ma sopravviviamo alla circonvallazione di esterna di Tirana, la sera in bici. Il centro è gigantesco, con grandi edifici da vecchia gloria comunista. La piazza principale è mastodontica, con un mosaico che domina la vista inneggiante alla grandezza del popolo albanese con una bandiera rossa. Questa magniloquenza appartenente ai fasti del passato è parte del fascino della città. Dormiamo in un albergo il cui proprietario è insistente al limite della maleducazione. Gli chiedo dov’è una lavanderia a gettoni e mi offre lo stesso servizio, per giunta prezzolato. Arriviamo quasi a litigare quando gli dico che non mi interessa. riusciamo a lavare finalmente come Dio comanda i nostri abiti: fino adesso li abbiamo spiaccicati nei lavandini degli alberghi con un po’ di sapone scadente. Ripartiamo e i vestiti bagnati ci si asciugano addosso in un battibaleno
Pogradec è una località lacustre carina, abbastanza turistica. Sorge sul lago di Ocrida, che è nientemeno uno degli specchi d’acqua più estesi dei Balcani nonché probabilmente il più antico del pianeta: esiste da più di un milione di anni. Mi dicono che ha un numero enorme di specie animali e vegetali autoctone. Ci buttiamo fra i pesci senza indugio anche se è quasi sera; è pieno di alghe con le radici sul fondo, fanno il solletico mentre nuotiamo. L’acqua è fresca e sale una foschia verso l’interno del lago. Notiamo in un angolo della spiaggia un baretto che usa bobine di legno in disuso come tavolini, beviamo una birra e poi noleggiamo un paio di kayak per addentrarci nel lago. Sotto al posto in cui dormiamo c’è un pub simil britannico tutto incentrato su Sherlock Holmes. Al peggio non c’è mai fine.
FLORINA (Grecia) Ormai ci siamo: oggi se le gambe ci assistono scolliniamo in Grecia. Atene è ancora lontana ma siamo felici. La giornata è soleggiata, tira un po’ di vento e ci aspettano strade brulle e deserte, che è poi uno dei motivi per cui ci piace viaggiare in bicicletta. Pare che il varco di frontiera interno di Krystallopigi non sia particolarmente frequentato, anche perché è sulle montagne. Pedaliamo con calma in mezzo a paesaggi lunari, con laghi in secca e giusto qualche pecora qui e là.
Mentre scendiamo da una discesa Claudia vede una tartaruga rovesciata, sembra morta. Qualche chilometro dopo ci sentiamo invasi dal senso di colpa: magari era viva e dovevamo aiutarla? Gli unici edifici che ci sono ogni tanto sono dei minareti decorati che punteggiano il panorama vicino a minuscoli centri abitati. Il caldo si fa torrido e cerchiamo una fontana. Un vecchietto ci legge nel pensiero e ci regala una bottiglia d’acqua. In Albania non siamo mai riusciti, nemmeno nei negozi di alimentari, a pagare una bottiglia d’acqua ci è sempre stata regalata. Ci siamo un po’ innamorati degli albanesi.
Claudia fora una ruota e ci fermiamo a ripararla. Di nuovo due donne ci portano dell’acqua. C’è un agglomerato di case, sono le due del pomeriggio e c’è un grande silenzio. Un’abitazione ha un’ampia aia, in cui c’è una distesa di fiori di zafferano color viola, giallo e rosso, messi a seccare al sole di fine luglio. Fuori dal paesino ci sono dei tralicci dell’alta tensione che ronzano in una maniera insopportabile. Passandoci sotto prendo una serie di scosse dal telaio metallico della mia biciletta.
Ci avviciniamo sempre più a Krystallopigi, mentre pedaliamo in salita metto su Tales and songs from Wedings and Funerals di Goran Bregović dalla minuscola cassa del mio cellulare. I fiati acuti premono, le tube si perdono: è il nostro modo di salutare i Balcani. Alla frontiera ci controllano effettivamente tutto, compreso il passenger locator form che abbiamo scoperto fortunatamente che andava compilato almeno 48 ore prima dell’ingresso in Grecia e ce l’avevamo pronto. Nonostante la doppia dose di vaccino che dovrebbe permetterci di andare dovunque in UE, un funzionario scorbutico ci dice “Rapid test” e ci fa segno di andare verso degli infermieri bardati. Diciamo che siamo vaccinati ma non c’è verso. Sembra incredibile ma è la prima volta in assoluto che ci fanno un covid-test, non essendo fortunatamente mai stati male. Tensione per 10 minuti, con gli occhi che lacrimano per il cotton fioc su per il naso.
Ripartiamo, saliamo verso la montagna. Sono un po’ stanco, mangio qualche biscotto. La natura è splendida, lussureggiante, ci sono cartelli che avvertono del pericolo di orsi, ci sono ruscelli incontaminati, un’amenità a cui non siamo abituati. La presenza antropica è zero, esclusi noi due. Siamo talmente di troppo che accade quello che non volevo accadesse: due cani da pastore rabbiosi mi inseguono. Forse sono passato troppo vicino al gregge che sorvegliano. Claudia è un centinaio di metri più indietro di me, vede la scena e scende dalla bici: questo è il metodo per non spaventare i cani e lasciarli tranquilli. Io sono in corsa e non ho modo di fermarmi. Fortunatamente sono in leggera discesa. Spingo come un pazzo sui pedali, ho veramente paura. Un cane molla l’inseguimento, l’altro, più giovane, continua come un indemoniato; guardo il tachimetro, tocca i 60 all’ora. Non può reggere a lungo quel maledetto cane. Inizia finalmente a staccarsi.
Aspetto Claudia, che arriva placida qualche minuto dopo, ma sono mezzo traumatizzato. Ogni volta che sento un suono che assomiglia a un latrato mi tendo. La sera scende, accendiamo tutte le luci di cui disponiamo (siamo in quella che d’inverno è una località sciistica) e scendiamo finalmente a valle. Florina ci accoglie. Claudia parla greco moderno, dopo la doccia andiamo a brindare, in fondo siamo arrivati in Grecia; locali e ristoranti in questo paese sono aperti sino a tardi, la gente è amichevole.
SALONICCO Puntiamo di nuovo verso il mare per una delle vere tappe importanti del viaggio, Θεσσαλονίκη, Salonicco, dove Claudia è stata 8 mesi in Erasmus mentre frequentava la facoltà di archeologia. Devo ammettere che qui ho la mia prima grande delusione: alcune città della Grecia hanno giusto due rovine antiche ancora autentiche, per il resto sembrano uscite dalla fantasia di qualche palazzinaro degli anni ’80. A Salonicco è stato sicuramente complice il grande incendio scoppiato nel 1917 e durato bene 32 ore. La speculazione edilizia folle degli anni che hanno preceduto la crisi economica del 2009 ha fatto il resto. Le tracce bizantine, ellenistiche, ebraiche, ottomane si vedo solo in filigrana.
Il mercato di Salonicco, Καπάνι.
Beviamo un cocktail in un locale piuttosto carino accanto a un sito archeologico e poi giriamo la città. Mangiamo pesce fresco in un ristorantino in centro, Claudia mi dice “Venivo spesso qui; ci sono venuta anche coi miei”: ripenso all’italico rito dei genitori che vengono a trovare il figlio in Erasmus (memorabile il trolley di pasta-biscotti-caffè di quando mia madre e mia sorella vennero a trovarmi in Francia); mi piace sempre visitare città che hanno rappresentato qualcosa per la persona con cui sono, pensare che lì c’è stato un pezzo della sua vita.
VOLOS La città più brutta che abbiamo visitato, anche se nel vecchio albergo in cui abbiamo dormito ci siamo intrufolati sul tetto e sono riuscito a strappare qualche foto che mi piace. Giustamente, è poco più che un centro di passaggio. Però siamo stanchi e abbiamo voglia di mare e spiaggia (stavolta un po’ anch’io incredibilmente); è il 30 luglio ed è il compleanno di Claudia. Scrivo un raccontino per lei, glielo faccio leggere in una spiaggetta vicino alla città al tramonto. Anche il primo anno in cui stavamo insieme le avevo scritto un raccontino. Quello di quest’anno è qualitativamente meno riuscito di quello del 2019. Mi sento un po’ in colpa, vorrei aver organizzato qualcosa di fantastico per il suo compleanno. A lei in realtà frega poco del compleanno: vuole solo andare al mare. Abbiamo questa convenzione di non farci regali a meno che non ce ne venga voglia.
Chiediamo informazioni sulle auto a noleggio per raggiungere spiagge un po’ distanti, da cartolina, che vediamo su Google; ci sparano prezzi folli e così ridimensioniamo le nostre ambizioni e andiamo alla fermata del bus. Mentre beviamo un caffè nell’attesa, facciamo l’incontro migliore della vacanza: Πανος (Panos), un vecchio simpatico e tracagnotto che sfodera un buon inglese e una voglia matta di chiacchierare. Tutti lì attorno lo conoscono e lo salutano, dev’essere una specie di leggenda locale. Dire che è stato solo cordiale non gli renderebbe giustizia (ho il suo numero di telefono ancora salvato in rubrica): ci istruisce su dove andare a fare il bagno e ci chiede mille cose sull’Italia, paese che ama anche se quando era un giovane si era innamorato di una ragazza napoletana bellissima di passaggio a Volos; erano stati insieme e al momento di salutarsi si erano scambiati gli indirizzi: lui le aveva scritto, ma lei non aveva mai risposto. Ci dice che secondo lui Monica Bellucci è la donna più stupenda dell’universo e ho l’impressione che enfatizzi il concetto come se volesse tributarci il merito di condividere la nostra italianità con Monica Bellucci. Gli faccio i complimenti per l’inglese e lui dice che ha sempre letto e si è sempre informato, anche se la sua famiglia purtroppo non ha potuto farlo studiare regolarmente. Infatti, Panos è lo storico barbiere della città, ormai meritatamente in pensione. In tempi non sospetti aveva simpatie per il partito comunista, perché la giustizia sociale è la cosa in cui crede di più: ci racconta di quando andò a comprare il giornale una mattina e scoprì sgomento della tragica morte di quel grande uomo, quel paladino dei diritti dei lavoratori la cui fama oltrepassava i confini italiani: Enrico Berlinguer. Ci dice che non gli piacciono i preti perché con le loro stramberie religiose incatenano i popoli: mi consiglia di leggere un saggio che a lui adora, L’illusione di Diodi Richard Dawkins nientemeno che professore a Oxford. Panos è un autodidatta di un certo spessore. Ho subito acquistato il libro di Dawkins. Panos ha gli occhi ancora sognanti quando ci racconta che c’è stato solo un ragazzo che ha saputo combattere davvero per una Grecia più giusta qualche anno prima: Alexis Tsipras. Mi tornano in mente vecchi ricordi del 2013-14 quando ero all’università e sembrava davvero che SYRIZA sarebbe stato il nuovo faro della sinistra europea, con il giovane primo ministro che combatte i freddi burocrati europei che prosciugano la Grecia imponendole di distruggere lo stato sociale. Quando Tsipras venne in città in campagna elettorale, aveva necessità di sistemarsi barba e capelli: Panos il barbiere, il Figaro di Volos, non si lasciò sfuggire l’occasione.
Ci godiamo una spiaggia, e soprattutto il bar vista mare lì accanto. L’acqua è decisamente limpida al punto che rompo le scatole per comprare un paio di occhialetti da immersione in un negozietto da turisti: ovviamente scomodissimi e inutilizzabili.
ATENE 40 km alla meta; si sa: sono i più difficili di tutti. Guardo l’altimetria sul ciclo-computer, cerco di capire quanto quel rosso inciderà sulle nostre gambe: nello schermo le salite sono gialle, arancioni o rosse a seconda del grado di difficoltà. Beviamo acqua in una specie di enorme autogrill a ponte mezza chiusa: una cattedrale nel deserto. Pianificare un viaggio con le immagini satellitari significa peraltro che non si ha idea di quale terreno dovremo affrontare. Abbiamo scelto una via boschiva, salendo su di un rilievo che protegge Atene a nord-ovest, la foresta Tatoi. Prima di arrivare alla salita attraversiamo un piccola valle riarsa, in lontananza si vede un’autostrada. Ci sono altri resti del glorioso passato della città, tipo il gigantesco schermo cinema di un drive-in abbandonato. Negli anni ’80 doveva essere una bomba.
Inizia la salita. Finiamo praticamente subito l’acqua. Il caldo è impressionante. Claudia ha un mezzo colpo di calore. Ci mettiamo sotto un albero a bordo strada, all’ombra. La poca acqua che resta gliela verso sulla testa “Dai che manca poco”. Ci infiliamo nel sentiero del bosco, io controllo il telefono e arriva rapidamente la grande notizia: nel giro di pochi minuti Gianmarco Tamberi e Marcell Jacobs hanno vinto due ori per l’Italia, rispettivamente nel salto in alto e nei 100 metri. I social impazziscono; ci sentiamo un po’ a casa per questo orgoglio sportivo di cui non abbiamo alcun merito (non più del merito che ci ha permesso di avere i documenti in ordine per passare le frontiere).
Nel giro di pochi metri la strada diventa sassosa, sterrata, ripida, semplicemente impraticabile. La pendenza è insostenibile. La polvere che solleviamo ci irrita le vie respiratorie. Ci tocca a scendere e spingere le bici che non non hanno alcuna aderenza sul terreno. Ci scambiamo i mezzi, io spingo quello di Claudia che è più pesante. Il ciclo computer ci ha abbastanza gabbati, siamo esausti. Ad un certo punto avvistiamo una cappella lungo il sentiero: ci sono grandi bandiere greche e speriamo ampiamente in una fontana che non troviamo. Claudia prende una bandiera e inizia a farla sventolare per scherzo: è una bella scena.
Finalmente dopo qualche chilometro la salita impervia finisce, troviamo una strada più o meno percorribile e la pendenza diventa affrontabile. Il gps non mente: siamo sempre più vicini al punto più alto della foresta, tra poco sarà solo discesa, la discesa della GLORIA TIPO BOH CIOè CE L’ABBIAMO FATTA. Vediamo una casa, sembra abitata: suoniamo il campanello per chiedere un po’ d’acqua. Non ci risponde nessuno. Nel frattempo si fanno sempre più frequenti autobotti dei vigili del fuoco e jeep della guardia forestale: l’allerta incendi dev’essere molto alta. Giriamo una curva e come un miraggio c’è un rifugio. Ci sono vigili del fuoco in pausa che bevono bibite fresche, un grande cane affettuoso che ci fa le feste: ci sediamo e ordiniamo tutto ciò che di freddo e liquido possiedono.
Inizia la discesa; è uno dei momenti più belli della vacanza. A pochi chilometri dalla meta, l’acropoli inizia a profilarsi all’orizzonte, in lontananza. Il paesaggio lentamente diventa sempre meno naturale. Il cemento che ha rovinato questa nazione con le privatizzazioni pazze degli anni scorsi si fa sempre più notare. La circonvallazione è uguale a qualsiasi altra. Con calma Claudia inizia ad orientarsi. Quando ci siamo conosciuti lei è partita quasi subito per Atene, per seguire un corso di greco moderno. Non ci conoscevamo ma ci telefonavamo ogni giorno. L’attesa ha caratterizzato l’inizio della nostra relazione. Avevamo prenotato la nostra prima vacanza, a Napoli, per quando lei sarebbe tornata: io le dicevo scherzando “Beh, a meno che non ti innamori di Zorba il Greco”, immaginandola già cadere sotto il fascino di qualche ateniese mentre io aspettavo a Verona.
Rivedo gli stessi posti che Claudia mi mandava in foto: arriviamo nella piazza Monastiraki, l’Acropoli è illuminata e stupenda. Penso “allora è questo il posto di cui la maestra ci parlava alle elementari”. Faccio foto che vengono male, insisto perché ne voglio una con la bicicletta sollevata sotto l’Acropoli. Banale, ma che ci vuoi fare: avrò pur diritto anch’io ai miei 15 minuti di celebrità.
Tutto è splendido, le ore passano, siamo ubriachi della città. Sono quasi le 3 del mattino ma c’è ancora andirivieni, i locali sono tutti aperti, la città respira di notte. Passiamo da piazza Syntagma, dove i Greci ottennero la Costituzione e dove dirette interminabili nel 2009-2010 mostravano la folla che sembrava dover cambiare il destino dell’Europa. Avevo ascoltato un podcast su France Culture che diceva che la Grecia è un paese che vive costantemente (e tutto sommato serenamente) in bancarotta. Ricordo aberrazioni come il partito neo-nazista Alba Dorata, la cui esistenza si spiega facilmente considerata la frustrazione di questo popolo rispetto ai propri conti pubblici; ricordo l’onnipresenza nel dibattito di qualche anno fa delle parole Austerità, Troika, Fondo Monetario Internazionale. Non a caso Claudia mi racconta che la scena anarchica è vivissima in Grecia, e che le occupazioni abusive sono parte del tessuto urbano. Mi racconta che la sua ex coinquilina, Angeliki che suona la fisarmonica ed è una raffinata ventriloqua, ha vissuto per mesi in appartamenti occupati, fino a quando non si è stufata di non avere l’acqua calda.
Gli stipendi sono bassissimi, tanti campano di sussidi. Qualcuno del luogo mi racconta che nella vecchia Atene, negli anni del boom del cemento, aziende private pagavano profumatamente gli inquilini delle vecchie case per radere al suolo il centro storico e costruire robaccia da Berlino Est. Grazie a questo fenomeno molti greci sono sono costruiti la seconda casa sulle isole.
Anche se sono ormai le 3 passate un cameriere acchiappa-passanti (!) ci blandisce con un menù non male. Mangiamo un’insalata notturna seduti regolarmente in terrazza con feta, cipolle, pomodori e cetrioli come desinare a quell’ora fosse la cosa più normale del mondo. Attorno a noi, altri clienti che non fanno una piega. Un musicista di strada attacca un Sirtaki.
Il giorno dopo passeggiamo per il quartiere ortodosso, in cui i negozi vendono icone e paramenti ecclesiastici riccamente rifiniti, d’oro e d’argento. Visitiamo il museo archeologico, Claudia mi racconta delle colmate persiane: nel 480 a.C. le statue sacre profanate e rese mutile dagli invasori persiani vennero sepolte dai greci superstiti, regalandoci un incredibile patrimonio d’arte antica. Saliamo all’Acropoli, non senza una certa emozione: impazzisco all’idea che i fregi di Fidia se ne stiano così, impunemente, al British Museum di Londra. Mi chiedo anche come sia stato possibile prima rendere una polveriera un luogo del genere e poi prenderlo a cannonate all’epoca della guerra Turco-veneziana nel XVII secolo.
La sera andiamo a vedere l’acropoli dalla collina rocciosa che le sorge accanto. Ci sediamo sulle pietre ancora calde di un sole tramontato da poche ore. Una ragazza ci nota e ci chiede di poterci fare una fotografia (sic). Le allungo il mio telefono e ne scatta una tutta mossa, inutilizzabile. Che strani incontri si fanno ad Atene.
La mattina beviamo un caffè freddo sotto un grande tiglio decorato con luci e lampade turche, in una pasticceria piena di gatti e turisti che parlano una babele di lingue diverse. Ci godiamo un po’ il quartiere alle pendici dell’Acropoli, l’unico rimasto fedele a sé stesso e più o meno libero dalla speculazione edilizia. Mi imbatto in un negozio di carte geografiche e mappamondi, e penso che considerato il contributo che gli antichi greci hanno dato alla geodesia, beh, il proprietario non poteva aprire la sua attività in un posto migliore di Atene.
Sono le ultime ore nella capitale: a Patrasso ci aspetta il traghetto che ci riporterà a Verona. Ci imbarchiamo con calma, c’è tutta la notte per dormire. Io non riesco a prendere sonno e bevo una grappa all’anice al bar che c’è a prua, mentre guardo i flutti ventosi dell’Adriatico: è ora di tornare a casa.
P.S. Scrivo infine questo diario nell’aprile del 2022, in un momento in cui la lettera “Z” ha un significato mortifero.
Eppure, se c’è una cosa che ho imparato ad Atene è che la lettera “Z” in greco ha lo stesso suono della terza persona singolare del verbo ζω, “vivere”.
“Z” significa quindi “egli è in vita”.
“Z” è il titolo di un romanzo di di Vassilis Vassilikos che a sua volta ha ispirato il film “Z” di Constantin Costa-Gavras.
Il libro “Z” parla del truce assassinio del deputato di sinistra Grigoris Lambrakis da parte un fascista spalleggiato da polizia ed esercito: nel giro di poco la Grecia precipiterà nella Dittatura dei Colonnelli.
Nel film, i giovani pacifisti scrivono la “Z” in segno di protesta, per omaggiare il loro idolo morto per la libertà.
Dalla rassegna stampa finale del film: «Contemporaneamente i militari hanno proibito i capelli lunghi, le minigonne, Sofocle, Tolstoj, Mark Twain, Euripide, spezzare i bicchieri alla russa, Aragon, Trockij, scioperare, la libertà sindacale, Lurçat, Eschilo, Aristofane, Ionesco, Sartre, i Beatles, Albee, Pinter, dire che Socrate era omosessuale, l’ordine degli avvocati, imparare il russo, imparare il bulgaro, la libertà di stampa, l’enciclopedia internazionale, la sociologia, Beckett, Dostoevskij, Čechov, Gorkij e tutti i russi, il “chi è?”, la musica moderna, la musica popolare, la matematica moderna, i movimenti della pace, la lettera “Ζ” che vuol dire “è vivo” in greco antico»
Sono ossessionato da un pensiero a dir poco apocalittico: cosa accadrebbe se i tutti i server di questo pianeta si distruggessero nello stesso momento? Se non potessimo più accedere all’estensione della nostra memoria cerebrale in formato cloud ?
Mi sono dato una risposta che vale esclusivamente per me stesso: niente di che. Non potrò mai più leggere le e-mail di quando avevo 15 anni, banalmente perché Jumpy.it è fallita, e dunque il mio indirizzo e-mail dell’epoca (che mi guardo bene dal rievocare in questa sede) è scomparso nell’etere: la cosa non mi turba più di tanto. Forse tutti noi dovremmo bruciare i residui dell’adolescenza e far finta che essa non sia mai accaduta; (io ho condannato alla combustione anche i miei lavori cartacei dell’epoca con scarsissimo rispetto per l’ambiente e ringraziando iddio di non aver mai pubblicato nulla di quella paccottiglia).
In ogni caso, purtroppo, dell’indirizzo e-mail — ILGAVIOLO@LIVE.IT — non riesco proprio a liberarmi: c’è dentro un’era geologica di spam. La cosa più terribile è che la segreteria del Conservatorio di Verona, la quale mi ha conferito il titolo magniloquente di “Maestro”, ha ancora in memoria quell’orrore partorito nei pomeriggi d’estate più disperati e interminabili. Quando la segretaria mi chiamò per un controllo documenti alla vigilia del diploma e mi chiese se usassi ancora quell’indirizzo, notando il mio disagio mi tranquillizzò: “Guarda, non è nemmeno il più imbarazzante”.
E-mail a parte, parliamo di cose serie: internet serve principalmente a corroborare il nostro immaginario erotico. Io che ho vissuto nell’epoca di passaggio tra reti private dopo le 23:45 e l’internet, beh, vi garantisco che è stata un’autentica rivoluzione cognitiva e filosofica. Se “l’immaginazione al potere” è stato il grande slogan del Sessantotto, al giorno d’oggi potremmo aggiornarci con “L’immaginazione non serve più”.
Ora, torniamo per un momento all’ipotesi iniziale: scoppiano tutti i computer, tutta l’elettronica. I neo-puritani dell’internet fanno saltare la Silicon Valley con una congiura di polveri che fa impallidire Guy Fawkes. I nuovi pompieri della morale, come quelli di Fahrenheit 451, hanno il compito di distruggere tutto quello che passava per un codice binario.
Rimaniamo nudi con il nostro linguaggio, diventiamo puri nomi, ci ritroviamo soli nelle nostre parole come nella condizione primigenia che apre il Vangelo di Giovanni: “In principio era il Verbo […]” ;
I più anziani tra noi ricordano ancora distintamente i video hard che hanno visto più e più volte. La vera resistenza ora consiste nel serbarli nella memoria e imparare a raccontarli, assurgendo al rinnovato ruolo di aedi e rapsodi dell’erotismo. Si aprono simposi, scuole filosofiche, risorgono i peripatetici delle varie categories. La via dell’autenticità è ormai percorsa, la creatività prepotente esplode di nuovo, l’amore si fa vero e tangibile a partire dal racconto, perché ciò che viene raccontato, come la migliore letteratura, vive per sempre.
…
Per chi se lo stesse chiedendo, ultimamente, di base, sono felice.
Mio padre a giugno del 2020 ha esalato il suo ultimo respiro.
Non me ne sono accorto completamente, o per lo meno non subito. Nemmeno ora, a mesi di distanza, sono certo di aver capito che una persona possa smettere di esistere da un momento all’altro; i buchi nella coscienza provocati dal sonno profondo sono gli unici strumenti che mi aiutano a capire; suona bizzarro che la comprensione di qualcosa passi attraverso il dormire, di cui non facciamo esperienza sensibile e non serbiamo memoria.
Da bambino ero convinto che i miei genitori possedessero il magico potere di accorciare la notte: non c’era sera in cui io mi coricassi senza l’immancabile supplica “Dormiamo poco?”, a cui mia madre rispondeva con un cenno di assenso. Odiavo la notte perché si frapponeva ad un continuum di giochi, cartoni animati, merende, storie dei libri del Battello a Vapore o dei Piccoli Brividi. Prendevo sonno subito e incredibilmente dormivamo poco sul serio.
Non ho visto direttamente mio padre morire; l’ho visto privo di coscienza, poco prima e poco dopo. Ho visto il suo diaframma ostinarsi disperatamente a chiedere aria. Ho pensato a tutti i polizieschi che ho letto, in cui, per capire se qualcuno è morto annegato, controllano sempre se la vittima abbia acqua nei polmoni. Sott’acqua, negli ultimi attimi che ti restano, ad un certo punto il tuo istinto di sopravvivenza ordina alla trachea di inalare acqua, come un soldato asserragliato che, certo di essere colpito, tenta comunque di esplodere un ultimo colpo a detrimento delle linee nemiche. Il respiro è davvero l’ultimo ad arrendersi. L’inizio della vita è sancito dal respiro, sotto forma di vagito, e il respiro è anche l’ultimo ad abbandonare il palcoscenico.
Mia zia piangeva. Chi non piangeva singhiozzava a tratti. Insieme abbiamo fatto la barba a quell’aggregato di molecole che fino a pochi istanti prima era percorso dall’ultima elettricità. Ero attentissimo con la lametta; mio padre quando si faceva la barba usciva dal bagno con il volto ridotto ad un campo minato, forse a causa della maniera pratica e sbrigativa con cui affrontava ogni aspetto della sua quotidianità. Dentro di me pensavo “Questa sarà la prima e unica volta in cui uscirà sbarbato senza ferirsi”. Ad un certo punto gli infermieri sono arrivati, ci hanno fatto uscire dalla stanza, chiedendo scusa se dovevano entrare nella nostra intimità con la freddezza di una procedura standard, come un rostro che sfonda la carena di una nave nemica.
Ci siamo ritrovati fuori in giardino, gli infermieri hanno abbassato le tapparelle. Quando siamo rientrati mio padre aveva i tratti più composti e un mazzolino di fiori sul petto. Mi chiedevo stupidamente se quei mazzetti li preparassero in un numero predefinito la mattina in base alle previsioni dei medici o se li confezionassero al momento.
Guardavo gli infermieri e pensavo quanto per loro fosse ordinario un momento per la mia famiglia talmente straordinario da rappresentare l’unicità: in fondo, pensavo con sollievo, la fatica di morire la si fa una volta sola.
I francesi chiamano questi momenti-chiave les tournants, locuzione che mi piace particolarmente anche se la traduzione italiana letterale, tornante,oppure giro di boa, risulta piuttosto debole, non foss’altro perché nella mia esperienza ciclistica, dopo un tornante che fa prendere fiato, la salita continua feroce a mordere le gambe, e anche le barche a vela nelle regate, dopo il giro di boa, devono tornare a terra, magari sfidando il vento contrario.
Il tornante della morte di mio padre, al contrario, non dava spazio a ulteriori affanni, anzi, al contrario: stabiliva, finalmente, una sorta di quiete, una patta inevitabile con la nostra finitudine. L’agenzia di pompe funebri ci ha regalato degli splendidi portachiavi a forma di bara. Il gesto era talmente kitsch da rasentare il sublime. Inutile dire che l’ho apprezzato molto, e che al momento il suddetto gadget giace quotidianamente nelle mie tasche.
Essendo stato mio padre un uomo del tutto privo di retorica, ho cercato di omaggiare la sua fine senza orpelli: provo una certa insofferenza di fronte alle perifrasi giornalistiche o da onoranze funebri: è mancato, si è spento o il francamente insopportabile ci ha lasciati; dato che toccava a me avvertire un po’ di amici di famiglia sono andato dritto al sodo, risoluto come un cavadenti del far-west: ciao, papà è appena morto, ah sì, grazie, no il funerale non lo facciamo, grazie davvero, sì in effetti è proprio ingiusto morire a 62 anni.
Andare dritto al punto mi sembrava una questione di purezza e di rispetto. Il giorno dopo iniziavano gli esami di maturità dopo due anni scolastici balordi tra pandemia e didattica a distanza. Non potevo permettermi di abbandonare i miei alunni proprio in quel momento, o forse non potevo permettere che loro abbandonassero me proprio in quel momento.
…
Uno degli aspetti più gradevoli di questa situazione, è il fatto che nessuno stavolta mi abbia sgridato perché non stavo affrontando “correttamente” la morte di mio padre, come se esistesse una maniera più giusta delle altre; l’assenza di autoproclamati guru spirituali che ti spiegano come si fa a stare al mondo, è stata una vera benedizione. Pensa ad esempio alla fine di una relazione: c’è sempre qualcuno che ti spiega come si fa a gestirla, ovviamente con una virosa ridda di luoghi comuni. ‘Stavolta, per fortuna sono stato graziato.
In generale, credo una delle più grandi sciagure dell’epoca contemporanea sia la nauseante retorica dell’affrontare i propri problemi, perché prima o poi essi busseranno alla porta e saranno ancora più ingombranti; al di là che è una raccomandazione dozzinale, da libracci motivazionali scontati del 70% nelle ceste delle librerie, ma saranno anche c***i miei, o no?
Io funziono così: rispondo al vuoto, al lutto, alla perdita, con il riempimento. Rispondo alla morte immergendomi nella vita, che per me significa vita sociale; trovo conforto nello stare con le persone, nel rito empireo e borghese dell’aperitivo. Diciamo pure che sono un grande fan della polvere sotto il tappeto, naturalmente solo quando la polvere e il tappeto sono di mia proprietà e non nuocciono alla vita di nessun altro. Mi spiego meglio: la polvere sotto il tappeto non è una buona idea se riguarda le relazioni con gli altri o qualche problema serio che necessita di un aiuto esterno/professionale. Ma quando l’affare è tra me e mio padre…
Ciononostante, il mondo è pieno di tromboni che con aria paternalistica regalano la loro saggezza sul fatto che i problemi vadano affrontati. Io penso invece che i problemi vadano schivati.
Inoltre, i tromboni con l’aria paternalistica che non fanno altro che riproporre acriticamente banalità perpetuate dai loro genitori, di solito sono le persone che gestiscono peggio i loro problemi.
A me piace uscire e divertirmi, mi piace andare al lavoro il giorno dopo la morte di mio padre (ah, ovviamente mi piace molto il mio lavoro, ça va sans dire), e piuttosto piango da solo in bagno quando sono a casa. Conosco altresì persone che affrontano questi momenti chiudendosi in loro stesse, senza voler vedere nessuno: esse hanno ragione.
Sono sempre stata invidioso di Ernest Hemingway che ha avuto ben due guerre mondiali in Europa e la Parigi più bella da raccontare. Ho sempre avuto l’impressione che al contrario, nella mia epoca non sia successo nulla di così interessante. Una pandemia globale mi ha accontentato.
Tutto è nato dal Kayak.
Lei volteggiava sulle onde del fiume, sinuosa come un’anguilla. Gli altri due amici che partecipavano al corso con noi, sportivi provetti, filavano giù tra i flutti, ubriachi di adrenalina.
Io alla terza lezione da principiante mi sono rovesciato, ho battuto la testa sulle pietre del fondo (Dio benedica i caschi); a quel punto, sfinito, ho recuperato il kayak volato qualche centinaio di metri più in là, ho appoggiato il culo su una roccia e non mi sono più mosso dalla paura. Ho guardato i miei tre compagni continuare a seguire il maestro in evoluzioni sempre più ardite.
Mi sono sentito come alle medie, quando le ragazzine sboccianti (e bellissime e irraggiungibili) guardavano quelli che giocavano a calcio e io non sapevo neanche tirare dritto un pallone di tela. Fu allora che capii che la vita contemplativa per me poteva essere più appagante di quella attiva. Il mio tempo sarebbe arrivato (mi ripetevo).
Torniamo a casa, l’Adige ancora addosso; -Non credevo l’avresti vissuta così male…- mi dice lei, dolcissima. Mi disegna una carezza sulla guancia e io mi sento se possibile ancora più inetto. -Guarda, vedere voi tre così bravi e io così incapace rasenta la défaillance sessuale nella mia testa- -Oh…- mi risponde un po’ piccata, come si risponde a un ragazzino egoista che fa i capricci. Mi guarda come a dire “Torno quando ti è passata”. Ha pienamente ragione.
Noi uomini ce le viviamo un po’ male le défaillance sessuali. Che idioti siamo.
Passo la giornata successiva a tentare di scrollarmi di dosso secoli di maschilismo patriarcale che acuiscono il mio senso di sconfitta, o per dirlo con le parole di Freud, il mio complesso di castrazione. Il fatto che la mia razionalità non riesca del tutto a domare queste idiozie mi fa sentire ancora più stupido.
Vengono a trovarmi due amici. Stanno per sposarsi. Io sarò il loro testimone. Questo fatto mi fa sentire come se stessimo viaggiando nell’universo siderale su due astronavi differenti. Racconto loro del Kayak e del mio senso di inadeguatezza. Quest’ultimo non si placa.
La sera io e Claudia siamo ad un compleanno, parlo con Paolo del kayak. Anche lui mi dice di aver subito i danni di questo cameratismo da quattro soldi nell’età dell’innocenza: -Sai perché faccio sport tutti i giorni?- mi chiede -Perché alle medie ero scarso, ecco perché-.
Orgoglio ferito, devo fare qualcosa. Impacchetto tutto ciò che posso sulla bicicletta e inizio a dirigermi di buon passo verso l’Adriatico, prima tappa, Pesaro, città peraltro di Gioacchino Rossini.
Claudia è un po’ contrariata dalla mia disorganizzazione e dalla totale improvvisazione di questo viaggio. “Andiamo in Abruzzo, forse ci fermiamo nelle Marche, forse no, forse andiamo in Cilento, chi lo sa”. Ci diamo appuntamento per qualche giorno dopo, vedremo dove arriverò. La mattina in cui io parto ci diamo un bacio, ha un sapore particolare, io ingigantisco tutto come al solito (mia sorella più piccola mi chiama drama queen) e mi sento Bartali che parte per il Tour de France, nello specifico quello del ‘48.
La strada è lunga, in pianura, la borsa che ho attaccato dietro alla sella beccheggia e quindi faccio fatica a pedalare en danseuse, in piedi sui pedali. Eppure ho abbastanza rabbia addosso dal giorno prima, la motivazione giusta, due buone borracce d’acqua e qualcosa da mangiare. Si può fare. Butto giù un pacchetto di crackers ogni 60 minuti, cerco di tenere i trenta di media, guardo il cemento che lentamente si trasforma in campi coltivati, la città che diventa provincia.
Qualche giorno prima io e Claudia abbiamo fatto un giro in quel tempio del capitalismo che è Decathlon. Tra i vari atleti mancati, me compreso, abbiamo comprato una tenda abbastanza ampia e qualche suppellettile da campeggio. Ci sentiamo in una botte di ferro. So che tutta quell’attrezzatura dovrà portarla Claudia da sola in treno e per questo mi sento un po’ in colpa. Piano piano capisco che l’organizzazione e il preavviso le servono proprio per capire cosa portare e come portarlo. Non realizzo che molte cose le tiene ancora a casa dei suoi genitori, perché in fondo conviviamo da pochissimo e in fondo sono un incosciente. Chi ha tempo di pensare alla logistica quando deve affrontare il Tour de France? Qualche giorno dopo mi renderò conto della sostanziale legittimità delle sue richieste e mi pentirò di essere stato così sbrigativo e talvolta scortese. Le chiederò scusa, sempre con un certo delay.
Nel frattempo le gambe girano, vedo la piana Veneta che piano piano si trasforma in piana Emiliana, tanto le zanzare non mi prendono. Sento stralci di discorsi che hanno un accento diverso da quello veronese e improvvisamente mi sento di nuovo a casa, perché la mia famiglia è emiliana d’origine. Senza accorgermene, sotto il sole, ben presto sono a Ferrara. Mi salgono alla mente memorie di qualche buskers Festival, quando avevo nemmeno vent’anni e credevo di aver capito come funzionava il mondo. Compro un po’ di frutta da un ragazzo indiano gentile. È ancora lunga.
Varco la frontiera che separa l’Emilia dalla Romagna, iniziano a comparire i cartelli che indicano Ravenna. Sono felice perché penso che una volta raggiunta la costa, scendere a Sud sarà un gioco. Mi piange il cuore per ogni centro storico che avrei voluto visitare. Mancano 20 km alla città in cui è sepolto Dante, realizzo con sacro terrore che ho dimenticato la pompetta d’emergenza a casa, la sera si avvicina e se foro la ruota sono nei casini. Se la foro in mezzo alle campagne romagnole sono nei casini ancora di più.
Vedo anche che la batteria del telefono inizia a languire, e non posso permettermi di non usare il navigatore gps.
-erano proprio altri tempi quelli in cui mio padre e mio nonno, autotrasportatori, giravano l’Europa senza uno straccio di cartina. Mio nonno poi, dalla Lombardia a Roma, col camion ci impiegava tre giorni-
Mi fermo, per la prima volta dopo molte ore in un bar chiassoso, kitsch quanto provinciale, con un orribile mobilio stile Mediaset primi anni Duemila. La parlata mielosa dei Romagnoli mi dà sui nervi. La barista è giovane, bella, scambiamo due chiacchiere. Non capisce bene come inquadrare la mia richiesta di avere delle pesche in vetrina: “Mah, questa frutta la usiamo solo per i cocktail…”. Mangio un panino, carico il telefono, non riesco a fare a meno di chiamare Claudia; riparto.
Inizio a vedere orde di turisti che volano verso la riviera. Mi lascio scivolare per stradine secondarie di campagna malasfaltate. I muscoli delle gambe iniziano un po’ a chiedere la resa. Ma è ancora lunga. Finisco in una strada enorme con i cartelli blu, forse una superstrada. Scappo di nuovo verso i paesini.
Inizio ad annoiarmi e recupero un vecchio lettore MP3 che ho portato con me, risalente al 2012 e che taceva dal 2016. L’epoca di internet sempre e dovunque era lontana, e quindi è ancora pieno di podcast scaricati dal sito della Rai dal computer fisso di casa. Che cosa vintage. Chissà quando li ho ascoltati l’ultima volta; forse in quella malaugurata estate in cui cercavo casa a Torino dopo non aver vinto la borsa di dottorato a Nizza.
C’è una puntata di “Lezioni di musica” di radio 3 dedicata al Sacre du Printemps di I. Stravinskij, argomento noto e arcinoto ma che riascolto sempre volentieri come guardo volentieri Italia-Germania 2006 su YouTube. Mi piace pensare a quel fagotto nel teatro degli Champs Elysées che nel 1907 ha sbriciolato secoli di tradizione musicale europea.
Bello il lettore mp3. Che strano ripensare a quell’epoca senza connessione in cui l’intrattenimento per ammazzare le attese andava pianificato con congruo anticipo. Mi lascio cullare da Radio 3 e arrivo a Ravenna. Il mare non lo scorgo ancora tra le mille strutture turistiche che hanno fatto la fortuna di questi posti negli anni ’60, ma decido che mi fermerò eventualmente solo dopo averlo visto. Ravenna è una soglia psicologica importante. Basta tirar dritto, giù fino a Pesaro, mi dico.
Avvicinandomi al litorale trovo finalmente due coniugi che hanno un noleggio biciclette con annessa piccola officina. Chiacchieriamo, mi vendono una pompetta di emergenza. Mi fanno i complimenti quando dico che arrivo da Verona: mi inorgoglisco un po’ senza darlo a vedere. Il cielo trascolora e mi rendo conto di non avere ancora molte ore di luce a disposizione. Lui mi dice “Guarda, se hai voglia di fare la strada bella sali dalla collina dopo Cattolica. C’è un parco naturale. Ma da qua ti stufi a fare lo slalom fra la gente”; io rispondo che ho pedalato in solitaria fino a quel momento, e che non mi dispiace un po’ di presenza umana; “allora arrivi a Rimini che non ti accorgi neanche di pedalare!”. I pini marittimi mi guidano attraverso alcune pinete, si sente l’odore dell’acqua salata.
In effetti, raggiunte le città sulla costa e le zone turistiche devo scendere più volte dalla bicicletta, andare con calma, superare i marciapiedi, divincolarmi dai crocchi di persone. Il mare è distante, oltre gli ombrelloni e i lettini sulla mia sinistra. C’è gente, ma non troppa. A Rimini vedo ragazzini che riempiono gli autobus incuranti del virus; superare le auto si rivela complicato. Le liceali si stringono nei loro vestiti striminziti, sono truccate e hanno voglia di farsi notare. I coetanei di sesso maschile invece sono ancora un po’ acerbi.
Il ginocchio destro inizia a fare i capricci, sento i tendini indolenziti. Devo fermarmi in farmacia, comprare una pomata anti-infiammatoria. A Rimini passo da Rivazzurra e sorrido: mi ricordo di qualche notte passata lì insieme alla ragzza del liceo, Nadia. Quei giorni d’estate solo con lei a 16 anni in vacanza erano la cosa più incredibile a cui potesse ambire la mia immaginazione. Consegnavo volantini in zona industriale tutto luglio per poterla raggiungere pochi giorni in riviera. Altri tempi, altre prospettive.
Mando un messaggio a mio cugino, che so abita in zona. Siamo amici da quando eravamo piccoli e giocavamo insieme. Forse dopo 4 anni (ma dico forse) ho smesso di invidiarlo per il fatto che nel 2016 lui ha vinto la borsa di dottorato mentre io no. Questo senso della competizione e del confronto della mia vita con quella degli altri deve finire, decisamente. Mi risponde con qualche minuto di ritardo: ormai ho superato la sua zona e non ho alcuna intenzione di girare la bicicletta e tornare indietro; più che altro perché inizio a sentire la stanchezza.
Sulle strade di Rimini vedo un piccolo chiosco di frutta. Ho una fame che non ci vedo, compro delle pesche, delle albicocche, delle banane e le divoro seduto in un angolo con una voracità da calo di zuccheri. In effetti mi accorgo che ho lo stomaco vuoto da diverse ore. Ridacchiando mi viene in mente una scena di Robin Hood con Kevin Costner, quella in cui i due pellegrini rientrati in Inghilterra dalla Terra Santa, dopo giorni e giorni di viaggio trovano dei meloni freschi in cui piantano la faccia come bestie feroci e affamate. Mi sento più o meno allo stesso modo (drama queen).
Continuo a spingere sui pedali, vicino a Cattolica fanno dei fuochi d’artificio sulla spiaggia. Li interpreto come un segno di accoglienza nei miei confronti, perché alla fine, ognuno legge la realtà circostante come vuole. Penso che la necessità di cercare dei segni sià la stessa necessità di dare un senso alla casualità totale delle nostre vite.
Supero il limite della regione, arrivo nelle Marche, nella propaggine di territorio che non è più Romagna ma di fatto è identica alla Romagna. Manca solo un parco naturale a Pesaro, che posso facilmente attraversare facendo la statale. Sono le 10 di sera, fa buio e l’asfalto ricomincia a mordere, in salita, come un’estrema prova per me che sono un ciclista da pianura. Sono più di 10 ore che sto in sella, ormai mancano appena 9 chilometri alla meta. Continuo a pedalare ormai mosso solo dall’ostinazione e dall’inerzia.
Dopo l’ultima grossa curva in salita accade l’inaspettato: i lampioni finiscono, e la strada ampia e percorsa dalle auto a gran velocità viene inghiottita da un buio terribilmente in contrasto con il paesaggio da carosello da cui arrivo. Alzo bandiera bianca: è decisamente il momento di fermarsi. Rischiare di essere travolto da una macchina per orgoglio mi sembra davvero stupido.
Il telefono ha la batteria completamente scarica, quindi non sono nemmeno in grado di cercare un alloggio. Giro la bicicletta alla ricerca del primo locale aperto disposto a prestarmi una presa elettrica. Sono piuttosto male in arnese, che ci metto un po’ a trovare una specie di ristorantino. È tardi: le cameriere e la padrona stanno cenando a un tavolo. “Qui è tutto chiuso, mi spiace”. Chiedo di poter mettermi in un angolo ricaricare il telefono per cercare un posto dove dormire. La signora è gentile, mi indica una presa e mi dà il nome di un paio di alberghi. Grazie al mare magnum che è internet trovo facilmente una stanza nella località di Gabicce al mare, dove gli alberghi sono sensibilmente meno cari perché appunto, dalla Romagna ormai ho scollinato nelle Marche. Ringrazio la signora del ristorantino e compro una lattina di aranciata più per scusarmi per il disturbo che non per berla. Non so ancora che quella lattina sarà la mia cena.
Arrivo all’albergo. Il tizio della reception mi fa mettere la bicicletta nella hall, “Tranquillo la guardo io” e poi, con un velo di imbarazzo negli occhi mi dice “Mi spiace, sul sito c’è un errore: la colazione non è compresa nel prezzo”. Non so se sia un giochino o se sia la verità, ma scommetto sulla buona fede dell’albergatore, capendo anche i tempi difficili sta affrontando l’industria turistica. Gli consegno la mia carta d’identità (è ancora in albergo al momento in cui scrivo). Fa una fatica incredibile ad usare il pos, mi dice “Che palle questa tecnologia”: in effetti ha un’età per cui è estremamente comodo fossilizzarsi sulle cose che si conoscono senza bisogno di impararne altre. Pago la differenza senza battere ciglio e mi chiudo finalmente in camera.
La doccia è una voluttà. Dopo lo sforzo fisico della giornata, eppure, faccio fatica a rilassarmi. La camera è bella, curata, ben rifinita e recentemente ammodernata. Sarebbe una camera perfetta da condividere, da usare per farci l’amore, dalla finestra si vede il mare. Lavo svogliatamente con un po’ di sapone i miei indumenti pieni di polvere e sudore. Guardo le linee biancastre che ha lasciato il mio sudore sul nero della maglia e dei pantaloncini. Mi sdraio, leggo qualche articolo da un giornale on-line. Non dormo il sonno dei giusti.
Mi sveglia il sole delle 8 e il calore secco e salino della riviera. I miei vestiti sono già asciutti. Scendo a far colazione, mi riempio di uova, pane tostato. mi impongo di non mangiare zuccheri troppo difficili da digerire ma non riesco a resistere a un tortino di carote. Poco male. Scendo alla tabaccheria-alimentari e compro del nastro isolante (non si sa mai) e dei cracker. Vorrei comprare anche della crema anti scottature ma i prezzi sono prevedibilmente improponibili. Decido di continuare a soffrire.
Mi metto in viaggio per Ancona; città che l’anno scorso ci ha fatto da trampolino di lancio per conoscere il Conero e l’amata Recanati. Le gambe girano ma inizio a non reggere più la pressione della sella sul culo. Inizio a fare sempre più pause. Mi fermo a riempire le borracce davanti ad una chiesetta, vicino alla fontana guardo la bacheca delle onoranze funebri, leggo nomi e destini di cui non so nulla. Mi chiedo quante di quelle persone siano morte di Covid. Il contrasto della morte con le spiagge piene di vacanzieri un po’ mi disturba.
Inforco di nuovo la bici ma sono stanco. Gli ultimi 10 chilometri prima della stazione inizio davvero a pregare ad alta voce perché sono esausto. Mi sono mangiato poco più di 80 km per arrivare nel capoluogo marchigiano.
Prima di partire riesco a mettermi d’accordo con mio cugino. Si decide di fare una capatina a alla spiaggia di Mezzavalle, bere qualche birra e ricordare i bei vecchi tempi. Ci sono anche altri amici, compagni di università con cui avevamo fatto festa anni e anni fa, quando eravamo tutti studenti e io stavo per partire per la Francia. Io e Claudia siamo i benvenuti, guarda caso avevo prenotato per due persone in più che però non sono venute, vi aspettiamo. In che senso hai prenotato? Eh, adesso anche nelle spiagge libere devi prenotare. Poi magari non controlla nessuno eh. Vi aspettiamo.
Vedo Claudia in stazione; è una bella sensazione, per quello. Ci abbracciamo, ci baciamo. -Oddio come hai fatto a portare tutto questo ambaradan in treno? -Eh ho fatto fatica. Ha con sé la sopracitata tenda da campeggio esageratamente pesante, una bicicletta, una borsa e uno zaino da viaggio scout enorme sulle spalle. L’inaffondabilità di quella ragazza mi colpisce sempre, capisco perché piace ai miei amici.
Ho chiamato l’albergo davanti alla stazione, ci tengono i bagagli e le biciclette per 5 euro a testa. Resto sempre stupito dall’idiozia delle stazioni che non possiedono un deposito bagagli. Buttiamo tutto in uno scantinato e prendiamo un autobus; è domenica. Sono felice; è strano tornare in quei luoghi dove avevamo passato una delle nostre prime vacanze, quando sapevamo tutto sommato ancora poco di noi. Ricordo una spiaggia di sassi, erano le nove di sera ma c’era ancora luce, io che le chiedo: dai, raccontami dei tuoi amori passati. Mi sembra passata un’eternità. Che poi, chiedere degli amori passati vuol dire sempre farsi un po’ del male.
Mezzavalle non è più quel luogo ameno che ricordavamo dall’anno precedente. Ci sono troppe persone. Ci sono poliziotti con le moto d’acqua che sgridano dei ragazzini che ballano sul bagnasciuga: assembramento non consentito. Mi chiedo quanti social networks verranno inondati con l’hashtag #mezzavalle solo in quella giornata.
Mio cugino è con la fidanzata, l’ultima volta che ci si è visti era stato a Bologna, era dicembre, volevo conoscessero Claudia. Avevamo mangiato in un’osteria, io avevo chiesto informazioni sulle Fiandre, dove saremmo andati di lì a poco, durante le vacanze di Natale. Nessuno immaginava che sarebbe arrivato il contagio, le notizie sul virus erano un’eco distante relegata nelle pagine degli esteri. Wuhan era una parola remota.
Assieme a mio cugino c’è un amico che avevo conosciuto durante soggiorni universitario-goliardici più o meno lunghi a Forlì. È toscano ed è finito anche lui nel mondo della scuola, anche se ha l’aria di non saper bene come. Ce la raccontiamo su com’è stare alle medie, ah ma tu sei alle superiori, sì ma io in paritaria, ah oddio la didattica a distanza, ah che palle il precariato. Mi butto in acqua per pochi minuti e poi tutti assieme beviamo una birra in un chioschetto lì vicino. Parliamo di lingue straniere, di Michael Phelps, di esami universitari farsa, di professori universitari rancorosi. È un bel momento.
Io e Claudia voliamo verso il campeggio, lo stesso dell’anno scorso. Piantiamo alla buona la nostra tenda nuova, mangiamo una pizza, io bevo un amaro e la mattina dopo si riparte, destinazione Vasto. Con calma arriviamo a Pescara, capoluogo di provincia dell’Abruzzo. La stazione è enorme, una vera cattedrale nel deserto, data la sostanziale scarsa rilevanza della città. La stazione è un grande scatolone di cemento armato e vetro, come piacevano i palazzi a Manhattan negli anni ‘90. Mi chiedo quanta speculazione edilizia, quanta corruzione, quanto marciume italiano sia servito per costruire un ecomostro del genere nell’epoca delle vacche grasse, cioè il Belpaese pre-tangentopoli.
In questa stazione faraonica accade qualcosa di incredibile: non c’è un deposito bagagli. Chiamo almeno 5 alberghi, mi rivolgo speranzoso al personale Trenitalia: nulla di nulla. Mi arrabbio, e giustamente. Abbiamo poco più di un’ora e mezza di attesa. Claudia mi calma e con armi e bagagli al seguito ci dirigiamo verso l’uscita: decidiamo di fare comunque due passi per il centro di Pescara, anche se lo zaino mi sega le clavicole. Fuori dalla stazione due poliziotti ci chiedono in malo modo i documenti, ma appena rispondiamo in italiano si sciolgono, dicono “Ah pensavamo che eravate tedeschi con le biciclette e tutti quei pacchi al seguito, ah ma siete di Verona, che bello, ho fatto la scuola di polizia vicino a Verona, che bella l’Arena con l’opera, ah se volete una buona gelateria andate qua”.
Dopo il gelato passeggiamo per Pescara, inorriditi da quanto sia brutta. In effetti è una città macchiata dal peccato originale, un vero disonore che in realtà tocca a pochissime città italiane: essere nuova, non avere storia.
Difficile pensare ad una chiusura cinematografica più memorabile di quella di Eyes Wide Shut, ultimo capolavoro di Stanley Kubrick: dopo le mille peripezie che conducono i due coniugi sull’orlo della crisi di nervi, Nicole Kidman guarda fisso negli occhi Tom Cruise: “C’è solo una cosa che dobbiamo fare… Scopare”.
In effetti, entrambi in modo diverso si trovano in balìa di istinti profondi e oscuri, in balìa di fiumi carsici in fondo alla psiche che non smettono mai di scorrere, per quanto coperti dalle rispettabili norme di buon portamento imposte dalla società.
Questi istinti possono davvero farci perdere in un secondo tutto quello che abbiamo costruito? Nel caso di Eyes Wide Shut un matrimonio felice, una solidità economica invidiabile e l’aver messo al mondo una bambina?
Fino a che punto abbiamo imparato a non dare ascolto a noi stessi per non turbare il nostro risibile quieto vivere?
Nei nostri comportamenti quanto c’è di vero e quanto c’è di costruito?
Forse le risposte a queste domande inizieremo ad intravederle solo approssimandoci alla chiusura. Forse ci verrà da ridere e scopriremo che le cose dietro le quali ci siamo tanto affannati erano sciocchezze, che non aveva senso essere tesi, nervosi e impauriti di fronte a questa o quell’altra situazione.
Vi capita mai di sorridere pensando a ciò che vi spaventava da bambini? Tipo quel corridoio che da piccoli percorrevate di corsa per paura del buio?
Quello stesso corridoio che anni dopo è stato il vostro rifugio, al termine di una notte di bisboccia con gli amici del Bar Sport…?
Magari, con l’approssimarsi della chiusura, tutta la vita ci sembrerà un corridoio buio in cui in fondo, non c’era nulla da temere.
Chiusura, al bar significa abbassare le saracinesche, dare un colpo di scopa ai pavimenti e lavare per terra, con le luci soffuse e le sedie rovesciate sui tavoli, e tutte le chiacchiere del giorno che scivolano via come la schiuma nel secchiaio dietro il bancone.
Mi piace pensare a Ruggero Caumo, il barman di Ernest Hemingway al celebre Harry’s Bar di Venezia, mentre prepara un ultimo Daiquiri allo scrittore americano che lotta con i suoi demoni. Forse Ruggero, mentre miscela sapientemente gli ingredienti il cocktail notturno, sa che in qualche modo entrerà, a buon diritto, fra le pagine del premio Nobel per la letteratura.
Mi piace immaginarlo mentre fa due chiacchiere con il maestro del romanzo americano, guarda l’orologio e il drink che ha appena finito di versare: “Mr Hemingway, questo è proprio l’ultimo, che tra poco, è ora di chiusura”.
Mezza estate vuol dire più o meno il 5 di agosto, considerato che quest’anno il solstizio è iniziato il 20 giugno e finirà il 22 settembre.
Siamo in anticipo sulla tabella di marcia.
Che l’estate abbia qualcosa di onirico e immaginifico lo sappiamo fin da quando siamo bambini, perché la scuola finisce e ci si rivede a settembre. Vuol dire aver tempo, tantissimo tempo, per il gioco, quando il sole proprio non vuole scendere e ormai è ora di cena, e le foglie splendono di un verde che fa quasi male.
Poi arriva il mondo del lavoro che è altra cosa, ma comunque tradizionalmente agosto è mese di vacanza.
La notte di mezza estate ha una caratteristica importante: ti obbliga a tirar fuori dall’armadio la felpa di cui ti eri dimenticato.
Quando hai 16 anni e si gira in due in motorino con il preciso intento di far mattina, già verso le 3 di notte la felpa è obbligatoria. Il che è veramente destabilizzante se poi ripensi alla canicola del primo pomeriggio.
La mezza estate è propizia agli amori e ai matrimoni, anche se Oberon e Titania, rispettivamente re e regina delle fate, non fanno altro che litigare nella commedia di Shakespeare.
Il sogno shakespeariano ci insegna una cosa importante sulla nostra condizione umana e sulla necessità di restare umili: i nostri amori così totalizzanti non sono altro che lo scherzo di un folletto, che ride di noi dalle profondità del bosco.
Il sogno shakespeariano ci ricorda che i nostri sentimenti sono in balia di forze oscure e imperscrutabili, e la realtà in cui ci muoviamo non è altro che un gigantesco teatro di inganni, gelosie e frivolezze.
Ma sopra ogni cosa il sogno shakespeariano ci ricorda quanto la nostra visione del mondo e le emozioni che proviamo, molto spesso siano il frutto di immaginazione e autosuggestione.
Dice Teseo nella scena prima dell’atto V: “[…] Gli amanti e i pazzi hanno cervelli che fremono, hanno una fantasia così piena di inventiva che concepiscono più di quanto la fredda ragione comprenda. Il lunatico, l’amante e il poeta sono fatti di immaginazione”.
Non credo sia casuale la scelta di abbinare coloro che amano, coloro che perdono la ragione e coloro che scrivono versi.
Se uniamo questa riflessione alla celebre “Siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni”, sempre da “La Tempesta” del drammaturgo inglese, possiamo concludere che spesso le cose a cui conferiamo importanza non sono altro che illusioni, e come tali andrebbero trattate.
Al folletto Robin Goodfellow, anche detto Puck, è affidato il compito di congedarsi dal pubblico alla fine della commedia: “Se noi ombre vi abbiam dato noia, pensate a questo e tutto sarà risolto: che non avete fatto altro che dormire mentre apparivano queste visioni, e che questa messinscena futile e oziosa, altro non è che un lungo sogno”
Un cliché piuttosto comune nella letteratura francese del diciannovesimo secolo è rappresentato dal giovane ragazzo di periferia che ambisce con le tutte le sue forze a diventare un cosmopolita uomo di mondo.
Il ragazzo in questione è sempre un po’ insoddisfatto, arrivista, e di certo desidera celare le sue radici campagnole. Il suo unico obiettivo sono le grandi luci della città. Non a caso, Parigi è detta la Ville Lumiere, l’urbe dalle mille luci.
Il ragazzo in questione di solito cerca di passare per ciò che non è. Inizia con l’indebitarsi per poi sprofondare nell’inevitabile tragedia. Questo accade nei romanzi di Honoré de Balzac, ma accade soprattutto alla povera Madame Bovary di Flaubert, incapace in tutto e per tutto di accettare una noiosa vita di paese corredata dal suo noiosissimo matrimonio.
Sembra quasi che questi scrittori vogliano ricordarci quanto sia impossibile diventare cittadini se si nasce provinciali.
Provinciale, poi, come aggettivo in italiano, ha anche una connotazione piuttosto negativa, indica qualcuno di vedute decisamente ristrette.
Ecco allora che di nuovo la città, rispetto alla periferia si impone come una macchina che può regalare il successo e la scalata sociale, oppure può rimanere una chimera inarrivabile. In effetti, parlando dei giorni nostri vi sfido a trovare un appartamento in affitto a Milano ad un prezzo umano.
Eppure, la città ci attira sempre, ci appare come luogo di fermento in cui spesso proiettiamo ciò che vorremmo essere. Di questo potete chiedere conferma a qualsiasi studente di provincia che affronta il suo primo giorno di scuola superiore in centro.
La città è magnetica. La lingua inglese ha addirittura una locuzione specifica per descrivere il dandy cittadino, il maestro della vita sociale sempre sulla cresta dell’onda: man-about-town, dov’è la parola town non è certo messa a caso.
Chiarito il ruolo della grande capitale nel nostro immaginario, che cosa resta dunque alla periferia?
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, come tutti sanno, gli Stati Uniti ci hanno inondati di dollari e questo ha fatto sì che il boom economico riempisse di cemento le nostre periferie, prima così rurali.
Alle Golosine, al bivio fra Stradone Santa Lucia e via Roveggia (cioè dove sono cresciuto), c’era un vecchio Bar Sport, allora detto “Osteria”, dal quale si potevano guardare le pecore che placidamente brucavano la campagna circostante.
Ma il libero mercato non perdona, e così sono sorte periferie anonime, esplose in maniera troppo rapida oltre la circonvallazione. Sembrano adolescenti cresciute troppo in fretta, senza ancora un’identità precisa.
Periferie che boccheggiano, prive di aree verdi, costellate di esercizi commerciali che arrancano per stare al passo con l’innovazione.
Periferie nelle quali, tra un capannone industriale e i fogli di amianto, io vedo ancora qualcosa di genuino, forse per il fascino che esercitano su di noi i luoghi abbandonati e in rovina.
Restano scheletri di locali, discoteche, ristoranti, che dopo un certo successo negli anni ’90, si sono arresi e hanno agonizzato fino a qualche giorno fa.
Le erbacce spaccano pian piano l’asfalto, ridono delle saracinesche arrugginite e dei cartelli su cui sta scritto “Affittasi”.